Gli Antichi Mestieri

Tempo d'castgnidura

"St'anno l'è n'anada
bòna da castagne e...
s'pòl tor mòje"

Tutte le famiglie di "sfollati" sulle nostre montagne e gli abitanti, naturalmente, ricordano ancora che durante la Seconda Guerra Mondiale le castagne erano ridiventate l'unico alimento in un periodo di miseria nera. In quegli anni (1942-1944) il paese era affollato di forestieri, scappati quassu' per sfuggire al terrore dei bombardamenti; i viveri razionati, rifornimenti scarsi: sembrò allora di essere tornati indietro di cent'anni... Alla fine di Agosto ogni campetto sul monte tornò a biondeggiare di orzo e di grano. E proprio in uno di quegli anni (1943), per l'ultima volta, il raccolto delle castagne fu provvidenzialmente abbondante. Da tempo era iniziato l'abbattimento dei secolari castagni, che gli anziani descrivono con orgoglio, tanto imponenti da richiedere le braccia di quattro o cinque uomini per misurarne la circonferenza. La folta vegetazione dei nostri monti che aveva fornito per secoli l'unico, magro alimento alimento a queste popolazioni, era insidiata ormai da due nemici: la "Castanèa", industria che nei pressi delle "Terme Puzzola" di Porretta, utilizzava su scala industriale il legno per ricavarne il tannino; e il cosiddetto "cancro del castagno", che pur senza uccidere le piante ne rinsecchiva i rami, diminuendo considerevolmente il raccolto. Ancora oggi si puo' notare, in certe zone, lo spettacolo triste dei castagneti con i secchi rami, nudi al sole, da far sembrare inverno. Ora la Castanèa non c'è piu', e il castagno, da buon montanaro, ha reagito: sta ritrovando l'antico vigore, anche se ormai il suo destino è in mano esclusivamente alla natura; nessuno infatti è rimasto a portare avanti un'antica arte che ha sempre provveduto alla cura di queste piante quando esse erano il fulcro della sussistenza delle genti di montagna. Stiamo parlando della "scacchinatura". Questa pratica non è cosa da poco. Le piante vanno periodicamente ripulite se non si vogliono piu' foglie che frutti. Settembre è mese di "armondadura". I castagneti fumano: sono sterpi, felci e "raggie" accuratamente tagliate, rastrellate e bruciate. Il terreno così ripulito attende il suo frutto pungente.

Per Santa Maria la castagna la s'cria
per San Lucca la castagna in terra tutta,
e s'l'a ni è, a si butta.

Battere i rami con la pertica è però l'ultima risorsa; di solito le castagne "crodano" da sole e s'ammucchiano dentro le "roste". Comincia la raccolta. Il paese si spopola: dall'alba al tramonto non c'è sosta, neppure la domenica. Anche la religione si adegua alle esigenze del lavoro: il prete dice messa alle cinque, perchè tutti possano essere nel castagneto appena comincia ad albeggiare per sfruttare anche il giorno di festa. Ognuno riempie la tasca del suo grembiale: i sacchi si colmano lentamente. Si raccolgono ad una ad una, le castagne, chinati tutto il giorno, con le mani che dolgono per gli spini fra le unghie. Anche se il lavoro è fatto con cura, qualche cosa rimane sempre per i "ruspadori"; i piu' poveri che non hanno castagneti, a chi ha finito di raccogliere chiedono:<<Ha tu fatto?>>, quello risponde: <<A'jò bell'e fatto!>>, e vanno a frugare fra il "parciamme", per antica e rispettata consuetudine. Qualcuno raccoglie a "mezzadria". Si dividono il prodotto: due parti al padrone e una a chi ha faticato. Finita la raccolta bisogna subito seccare le castagne nel caniccio.

L'essiccatoio, è una solida costruzione di pietra con una porta e due piccole finestre, una in alto per introdurre le castagne, l'altra per dare luce. Il tetto è coperto a lastre di arenaria. L'interno del locale è diviso, ad una certa altezza, dal caniccio: un fitto graticcio di legni sottili su travi. Le castagne vi vengono versate sopra; sotto si accende il fuoco su una "foglarina" al centro del pavimento di lastroni. Occorrono grossi ciocchi che brucino lentamente, con molto calore e poca fiamma. Per ottenere questo effetto si copre il fuoco con la "zanza" dell'anno precedente che era stata ammucchiata in un cantone. Il fumo invade tutto l'ambiente: se tira vento Libeccio o Scirocco acceca; la Tramontana invece lo tiene su bene, e sotto la gente veglia accovacciata negli angoli, piu' in basso possibile. Favole, racconti di spiriti sono il passatempo di quella lunga attesa, adatta per tramandare vecchie storie e antiche tradizioni. L'essiccatura avviene per gradi: da principio c'è bisogno di aria per asciugare e percio' si mettono circa 25 cm di castagne; l'umidità va via, dopo si richiude la finestra per seccare. Al momento giusto si piantano tavole nel mezzo del caniccio per voltare le castagne col fuoco spento, e ammucchiando ai quattro angoli i vari strati si portano a seccatura uniforme facendo ancora fuoco per una ventina di giorni. Per sentire se son secche si tastano con i denti, specialmente quelle negli angoli e nel mezzo. Si rivoltano con la pala quintali di castagne, in mezzo al fumo denso che fa "cridare". Le castagne così seccate vengono lasciate cadere dal caniccio attraverso una fessura e insaccate. Ma il lavoro non è finito! Ci sono ancora tante notti di fatiche per ripulire il prodotto dalla buccia e dalla zanza.


Il "buzzirro" e la "regina"

Gli strumenti per la "pistadura" sono semplici: il "buzzirro", pesante bigoncio con fondo convesso di un sol ciocco; la "regina", una specie di vanga con lo stesso appoggio per far forza col piede e, al posto della lama, tante corone di punte concentriche composte a cono. Il lavoro si svolge all'aperto, davanti al casone.


L'atto della "pistadura", compiuto da Aurelio Forlai.

Di notte si pesta, di giorno si "vassoja": l'inverno è alle porte, i cassoni e le bocche dei marmocchi aspettano la farina. A sera gli uomini, a turno, salgono sulla sedia, impugnano la regina e battono ritmicamente nel buzzirro pieno di castagne: lentamente la buccia si stacca e si raccoglie nel fondo. Al mattino le castagne così sgrossate vengono affidate alle vigorose braccia delle donne per la vassoiatura. Vanno su un poggetto: aiutate dal vento con movimenti bruschi e regolari del corpo scuotono e sollevano la vassoia per eliminare i residui della buccia. Così una prima e una seconda volta, finchè le castagne non sono libere anche dalla zanza. Poi lungo i sentieri i muli coi basti e i portatori con la "capuccia" in testa cominciano a sfilare verso i mulini carichi di sacchi. Le castagne si misuravano a "bigongi" e "corbe": un bigoncio equivale a 36 kg, una carba a 6 bigonci, quindi a 210 kg circa. Una corba di castagne fresche da' due bigonci di castagne secche. Dopo la macinatura le case si riempiono del grato odore di farina che premia tante fatiche e rasserena l'animo al pensiero di un inverno tranquillo. I ragazzi e le ragazze si lavano ben bene i piedi e pestano la farina nei grandi cassoni perchè non vada a male: diventa durissima, tanto che bisogn spaccarla con l'accetta e setacciarla per farne "necci" e "patolle", farinate e polente.

 

 

 

 

 

I carbonai

I montanari hanno sempre imparato presto e bene a manovrar l'accetta: castagni da "scanicchiare", ciocchi da spaccare per il camino, e un po' di legna da vendere. D'estate poi, sulle nostre montagne drizzavano le carbonaie fra le macchie di Pian Dello Stellaio, Pian Del Sale, Porta Franca, tanto per citaresolo alcuni luoghi dove ancora oggi si possono trovare le antiche "piazzole". Fino al secolo scorso, il carbone di legna non era certo una merce di lusso, ma di largo consumo, soprattutto per il riscaldamento. Costretta dalla scarsità del lavoro lacale, specialmente nel periodo invernale, la nostra gente finiva per esportare la propria arte anche di la' dal mare, in Sardegna e in Corsica e, precedentemente, anche in Maremma e in Calabria, per la grande richiesta di carbone che spingeva a sfruttare nuove e piu' ricche zone boscose. Mentre i pastori che emigravano erano prevalentemente di Granaglione, i carbonai che, finito di castagnare, andavano in Sardegna provenivano soprattutto dalla Valle del Randaragna : da Casa Calistri, Casa Moschini, Minchioni, Boni, Lazzeroni, Pacchioni, Trogoni, Gnocco ecc., partivano circa 40-46 "macchiaioli". Veniva un capo-macchia alle dipendenze di un impresa a reclutare i tagliatori, e organizzava squadre diquattro-sei uomini, secondo la grandezza della macchia da tagliare. Il viaggio di andata era pagato dal padrone, il ritorno era a carico dei carbonai. Il "contratto di lavoro" era a cottimo e il compenso si aggirava di solito sulle 8 lire per quintale di carbone prodotto. Dice una vecchia canzone dei carbonai:

Le speranza son bon se mi intendete,
perchè il padron fa bon promissioni,
vanno per tutto come ben sapete
questo secondo le combinazioni.

In Corsica e in Sardegna si va lieti
a prender la consegna dei lavori.
Se trovan la foresta folta e bruna
gli par d'aver trovà maggior fortuna.

I boschi erano molto distanti dagli abitati, sperduti fra le montagne della Barbagia e del Gennargentu, e percio' il capo-macchia provvedeva subito ad organizzare una dispensa di fianco alla tagliata. L'impresa dispensava solo farina di granoturco e formaggio; sul registro veniva segnato 50 lire al quintale il granoturcoe lire 1,80 al kg il formaggio, da scontare a fine stagione sulla paga. Nello stasso modo le donne a casa segnavano sul libretto, alla bottega, le poche merci che acquistavano, sperando nella stagione "buona" per saldare il conto al ritorno degli uomini. Qualche volta i "macchiaioli" spedivano a casa un acconto, o direttamente qualche formaggio comprato dai pastori locali. Appena arrivati alla macchia, costruivano le capanne fatte con legni e ricoperte di frasche e "piolde" (zolle). In ogni capanna stavano in tre o quattro, per lo piu' parenti o amici stretti. Le altre capanne erano distanti, ci si vedeva soltanto la domenica quando qualcuno scendeva alla dispensa. Per non dormire sulla terra umida si preparavano giacigli di rami e foglie, su un intelaiatura rialzata di legni: le "rapazzole". Nel mezzo si accendeva un fuoco, che faceva piu' fumo che caldo; a sera era tanta la stanchezza che si dormiva comunque. L'anziano ed esperto "capoccia" si sceglieva i compagni e guidava la sua squadra nel lavoro. Toccava al piu' giovane, il "meo", preparare la polenta a mezzogiorno e a sera. Tagliavano i fusti e spaccavano i tronchi piu' grossi; e così per settimane, fin che non si era ammucchiata legna sufficiente per una carbonaia (a volte si facevano carbonaie ch rendevano fino a 100 quintali di carbone!). Poi spianavano il terreno in "piazzole"; nel centro piantavano il "cavicchio" e torno torno drizzavano i legni tagliati, uno vicino all'altro con al centro i piu' grossi; sempre piu' in alto e piu' in largo facevano la "mucchia" a forma di cono, avendo cura di lasciare un buco nel mezzo per il fuoco. Si copriva il tutto con foglie, "piolde" e terra. Il fuoco si dava dall'alto e bisognava stare attenti che bruciasse lentamente per non rischiare di incenerire il lavoro di settimane.


Carbonaia drizzata da Pietro Taruffi nell'estate del 1976 alla Piaggia del Poggio Dei Boschi.

Ogni giorno si "pienava" la carbonaia che andava abbassandosi e per regolare il fuoco ed aspirare il fumo il "capoccia" faceva dei fori laterali sempre piu' in basso per carbonizzare tutta la legna. Dopo una decina di giorni il carbone era cotto; per poterlo insaccare si spegneva il fuoco soffocandolo dal foro centrale con della terra e si difaceva il tutto. Non sempre pero' riusciva: a volte invece di diventar carbone la legna tornava fuori come si era messa e percio' si doveva "casciare", cioè cuocerla di nuovo. In ultimo arrivavano "i cariolanti" con i buoi per portarlo via. Se la foresta era "buona" e il padrone non tanto egoista, si guadagnava qualche cosa; a volte invece si trovava la foresta "cattiva": alberi bassi che davano poca legna, e allora il guadagno era assai scarso. Peggio ancora quando capitava un padrone che alla fine non pagava! Nel giornaletto di Poggio Dei Boschi è riportata da Walter Boni l'esperienza dell'ultranovantenne Televio di Casa Minchioni, che una volta, presentatosi al padrone per fare i conti, si sentì rispondere con la pistola in pugno:<<Ecco qui quello che vi spetta!>>, e dovette ritornare a casa con il foglio di via, perchè non aveva piu' un soldo, nonostante avess lavorato sodo per tutta la stagione. Non esiostono in Italia operai piu' sacrificati e meno retribuiti, mentre il loro datore di lavoro aumenta enormemente il capitale e in pochi anni, talora da miserabile, diventa milionario, evidentemente defraudando la mercede agli operai.

I pastori

"E adesso che in Maremma sem condutti,
ognun pensi per sè e Dio per tutti."

La pastorizia ha avuto nei secoli passati, fino al dopoguerra, un'importanza grandissima per il sostentamento di queste popolazioni e per l'economia della montagna in generale. Nella valle del Randaragna non esistevano greggi numerosi, ma ogni famiglia possedeva una decina di pecore per il proprio fabbisogno. Complessivamente si parla di circa un migliaio di capi in tutta la valle. Mentre a Granaglione si era concentrata una maggior ricchezza, per effetto della migliore possibilità di comunicazione e di scambi commerciali, la Valle Del Randaragna, piu' alpestre e isolata, è sempre rimasta in condizioni economiche piu' misere. I pastori rimanevano in luogo solo durante i mesi estivi, in quanto in autunno il pascolo cominciava a scarseggiare, ed essi emigravano verso la Romagna o la Maremma. Questo avveniva in gran parte dopo San Martino (11 Novembre), terminata la raccolta delle castagne. Partivano gli adulti con i figli piu' grandi, mentre in paese restavano i bambini e i vecchi a custodire il prezioso raccolto, che costituiva l'unico sostentamento durante il lungo inverno. Il viaggio, tutto a piedi, veniva affrontato da due o tre famiglie riunite e durava sei o sette giorni. Oltre alle tante difficoltà, c'era anche il pericolo di incontrare dei ladri appostati sul percorso, e secondo alcuni racconti succedeva anche che i pastori si lanciassero con i cani all'inseguimento, tornando poi ricoperti di sangue. Durante le soste notturne, se non c'erano casoni nelle vicinanze, si rizzavano recinti con reti e pali per raccogliere le pecore, e a turni si vegliava. Durante il cammino avvenivano scambi con i contadini nei loro poderi, dove l'ospitalità veniva barattata con lo sterco che le pecore lasciavano sui campi come concime, o con il latte e il formaggio prodotto dalle stesse. In Maremma ci si fermava da Novembre a Maggio, ritornando poi tra i monti. La figura del greggie e sempre accompagnata da un caratteristico suono: quello dei "campani". Essi servivano per svegliare le pecore e farle sentire su per le macchie. Venivano messi solo a quelle che, per istinto, stavano davanti e guidavano il gregge. Le altre, sentendone il suono, lo seguivano belanti. Succedeva che alcune pecore si affezionassero ad un particolare campano seguendolo anche sugli scogli piu' ripidi, suddividendo il gregge in "truppette". Questo strumento era anche simbolo di prestigio, e spesso se ne utilizzavano un gran numero: al passaggio di questi greggi, l'effetto sonoro era indiscutibilmente suggestivo.

 

Gli scalpellini

Oggi si comincia a rivalutare l'architettura spontanea come espressione della cultura popolare, che in essa fonde il carattere sobrio della gente e la natura severa del paesaggio. Il duro mestiere dello scalpellino è una vera e propria arte, patrimonio dei nostri monti, di cui si possono ammirare numerosi esempi su architravi, pareti e caminetti di case e casòni. Per la loro costruzione si usavano i materiali che la natura offriva, senza ispirarsi a nessun tipo di architettura classica, ma basandosi solo sul tradizionale gusto. Tuttavia, pur nella semplicità delle strutture, si nota talvalta l'estro creativo dove la mano, guidata da chissà quali reminiscenze, ha tracciato fregi e disegni: nodi Gordiani, stelle a sei punte, stemmi, simboli religiosi, millesimi. Al Nibbio compaiono due simboli dei Mastri Comancini: in uno è scolpita una mano che impugna un mazzuolo, nell'altro una squadra e l'archipendolo. Alle Noci ancora un altro simbolo: la martellina, il mazzuolo, la punta e lo scalpello. Altri reperti ritrovati in queste zone, come nodi, spirali e sculture rappresentanti simboli di fertilità (ad esempio mammelle), sono addirittura riconducibili alla cultura Celtica (vedi la pagina"Cenni Storici"). All'ultima generazione di scalpellini (Silvio Mellini, Giuseppe Lenzi, Olivo Lenzi, Olinto Macciantelli), con capo Pio Lenzie Francesco Santi, si devono gli stucchi e le decorazioni in scagliola della Chiesa di Calvigi. Il campanile di Granaglione, secondo per bellezza soltanto a quello dei Boschi, fu costruito dal popolo con le maestranze locali dal 1845 al 1893. La guglia in particolare è opera di un certo Paccagnini, bravo scalpellino Granaglionese. Sisto e Settimo Macciantelli modellarono le quattro "fiamme" ornamentali del campanile. Nelle vecchie cave locali, dove si scalpellava dieci ore al giorno, il lavoro iniziava alle sei, e se a causa della pioggia non si proseguiva almeno un quarto di giornata non si veniva pagati. Per tre anni si faceva il "bocia " gratuitamente, ed era una fortuna trovare un maestro disposto ad insegnare il mestiere. Si concludeva con un esame: tagliare la pierta e fare un pezzo.

Tagliare il sasso in cava è meno facile di quanto si possa pensare. Si infilano nella pietra i "punciotti" (piccoli cunei di ferro), uno dietro l'altro. A forza di colpi di mazzuolo la pietra si spacca proprio nel senso desiderato; il numero dei "punciotti" deve sessere proporzionato alla resistenza del masso e, quando il lavoro è delicato, ci vuole anche la traccia per andare diritti. Un modo piu' antico per tagliare era quello delle zeppe di quercia: nella pietra si fanno le "cugnere" (incavi a forma triangolare) e vi si infila la zeppa che viene poi bagnata: l'acqua, dilatando il legno in precedenza ben asciugato, nel giro di poche ore e senza fatica, fa il lavoro di tanti e tanti colpi di mazzuolo. Se la pietra è "faldosa", cioè si sfalda facilmente, si mettono due pezzi di lamiera tra sasso e "bietta". Ci sono vari tipi di pietra: in alto nel banco c'è la piu' tenera, l' "arenaria"; in fondo la piu' dura, la "fiolitica": una soglia deve essere sempre di fiolitica, perchè lo strofinio dei piedi la consumi piu' lentamente. Anche i sassi "trovanti", quelle pietre che si incontrano a volte nei castagneti e affiorano sui monti, si possono lavorare, ma sono meno adatti di una bella pietra di acva. La pietra tagliata va lavorata subito: se sta al sole indurisce, ecco perchè lo scalpellino la ricopre con foglie e frasche quando interrompe il lavoro. Tagliata la pietra, inizia la parte piu' difficile. Lo scalpellino a forza di colpi di mazzuolo sulla punta deve modellarla e darle la forma desiderata. Per spianare ( "bocciardare") la superficie si usa la "bocciarda", un martello che ha in testa delle punte disposte regolarmente. Per "bocciardare" le cornici e per i lavori piu' fini si usa la martellina, una "bocciarda" con i denti piu' fitti e piu' piccoli. Squadra, riga, mazzuolo, mazza e punte fanno di un sasso l'ammirata opera di un artista. Il lavoro dello scalpellino è duro come il sasso di cui si serve, eppure richiede la finezza e la sensibilità di un cesellatore. Lo testimoniano tante piccole tracce che si trovano ancora oggi quando si pone mano alla demolizione di un vecchio muro, mescolate con incuria al materiale grezzo quasi che l'uomo non vi avesse segnato la sua impronta. Fortunatamente qualcuno sta riscoprendo e valorizzando questo patrimonio culturale.

 

"Quand al sòl va sotta
tutti i cojon i's mettn a la rocca"

 

I canapini

La sottile ironia di questo proverbio capannese ci dà la misura della diffusione, nella zona, dell'arte dei canapini. Molte famiglie avevano il loro telaio per sopperire al fabbisogno domestico e per l'esercizio di un modesto commercio. Qualcuno dai Boschi e da Biagioni andava in Toscana a pettinare la canapa. A Sambucedro, Casa Santini, Casa Canna si ricordano anche piccoli laboratori artigianali con sei o sette operai: ma erano casi isolati. La canapa grezza s'andava a prendere a Bologna coi muli. Le fasi della lavorazione comprendevano: pettinatura, filatura, tessitura e lavatura finale.


"Pettina" e "graffio"

Si cominciava a pettinate la canapa col "graffio", una tavoletta di 30 x 40 cm circa, irta di lunghi chiodi appuntiti. La canapa veniva battuta sull'arnese, tenuto stretto tra i piedi, così da sgrossarla e separarla dalla stoppa. Il lavoro veniva rifinito con la "pèttina", piu' sottile del graffio. Le "mannelle", matasse di canapa pettinata, si arrotolavano sulla rocca. La filatura vera e propria era un capolavoro di abilità: le dita di una mano facevano girare la rocca, mentre l'altra mano attorcigliava il filo e lo avvolgeva, "cocchiandolo" ogni volta all'estremità del fuso. Il filato veniva poi raccolto in matasse mediante il mulinello e si passava alla tessitura coi telai a mano.

 

 

 

 

 

 

 


Carrucole e "spola" di un telaio e "luppidoio" per fare i rocchetti.

Il telaio è un semplice ed ingegnoso strumento: un castello di legno inchiavardato con delle "zeppe", fabbricato artigianalmente. Qui, finalmente, dal movimento regolare che le sue braccia imprimevano alla macchina, l'artigiano vedeva crescere, filo dopo filo, nell'intrecciarsi della trama con l'ordito, il prodotto del suo lavoro. Per fare un metro di tela occorrevano due ore di intenso lavoro: si stendeva la trama, larga quanto il telaio, formata di tanti fili paralleli; si mandava la spola, all'interno della quale era fissato su due perni un "subbiello" di filato, ad attraversare la trama per comporre l'ordito. Ad ogni passaggio si facevano incrociare i fili col "liccio". La tela così tessuta era ruvida e dal colore giallo sporco della canapa: andava perciò lavata e bollita piu' volte nell'acqua di cenere, e lasciata stesa all'aria e al sole. Quella che non serviva agli usi familiari veniva venduta, specie in Toscana, con un altro viaggio a dorso di mulo fino al mercato di Pistoia.

 

"Fortunato in questo mondo
chi ha un prete e un sasso tondo"

Molini e molinari

Preti e mulini in quei tempi duri erano sinonimo di un invidiata sicurezza; e la farina non mancava certo in casa dei molinari: essi infatti venivan pagati con la "molenda": il 6% del macinato. Sui nostri monti ogni fosso aveva il suo mulino, e , secondo l'abbondanza dell'acqua, anche due o tre lungo lo stesso corso. Per macinare le castagne si usa lo stesso procedimento del grano. Importante è impostare la macina in piano, e per questo si usa la "randa", un bastone fissato all'albero centrale con un chiodo all'estremità. Facendolo girare intorno come la punta di un compasso deve sfiorare allo stesso modo tutta la circonferenza della macina, altrimenti vuol dire che l'albero è storto, e la macina non è in piano. La macina in movimento fa oscillare la tela della tramoggia e fa cadere le castagne nella mola. Con un registro si può accelerare la caduta, e con un altro regolare la macina per ottenere farina della finezza desiderata. Se le castagne sono verdi, cioè non seccate bene, "impastano" la macina; in questo caso, per non "impastare" continuamente, dopo aver smontato e pulito la macchina, l'unico rimedio è alzare il registro e fare farina "ruvida", cioè piu' grossa e di minor valore. Dentro il mulino è tutta una nebbia di farina: le pareti di legno ne sono ricoperte, come gli abiti e il volto del mugnaio. E' un ambiente caratteristico: la macina prevale sulla casa, lo scroscio dell'acqua accompagna anche il sonno; di giorno l'uomo ritrova l'antica alleanza con l'acqua e la pietra: il suo lavoro si fonde con la natura.

MULINI DEL COMUNE DI GRANAGLIONE

Sul torrente Randaragna:
M. di Lazarone (Casa Lazzeroni)
M. del Pozzo del Catino (Casa Roversi)
Un altro a Casa Roversi
M. di Valerio (Casa Boni, di proprietà di Gosto, ex centrale idroelettrica)
Molinaccio
M. d'Agnoletto
M. di Gostella (Randaragna)

Sul torrente Rio Muraglio,
fra Nibbio e Casa Calistri:

M. di Quelli di Ca'd'Iobbe (Mulino bruciato)
M. di Poggio la Ferriera

Sul torrente Rio Altede:
M. d'Ugo delle Noci

Sul fiume Reno:
M. del Ballone
M. del Diavolo
M. ed Brigada
M. del Pirotti ai Setteponti

Sul torrente Orsigna:
M. di Cagiolo

Sul torrente Bovecchia:
M. di Bovecchia (o "Re Dei Fossi")
M. del Rio (o di Bocchino)
M. della Villa (distrutto da una frana)

Sul torrente Rio Maggiore:
M. dei Pipistrelli
M. di Granaglione
M. di Pallareda

 

Gli Antichi Strumenti

 

MOLA: affilava coltelli, forbici e vari utensili da lavoro.
La "COTE": questa pietra, dotata dell'apposita impugnatura, una volta bagnata veniva utilizzata per affilare le lame.
Partendo da sinistra, possiamo osservare due TRAPANI MANUALI per legno e una TRAPPOLA per animali.
"BATTIPALO": la sua funzione era piantare i pali nel terreno. Veniva sollevato da tre uomini, ciascuno dei quali afferrava un manico, per poi essere scagliato violentemente, in verticale, sulle testa del palo.
TOSTAORZO: veniva appeso alla catena del paiolo. Ruotando si otteneva la tostatura dell'orzo.
Il "CORDGIALE": nelle aie si faceva un mucchio di grano od orzo, si copriva con un telo e lo si percuoteva con questo attrezzo per separare i chicchi dalla pula. Veniva impugnato uno dei bastoni, vibrando i colpi con la verga che era ad esso legata.
FERRI DA STIRO: quello al centro conteneva al suo interno la carbonella, mentre gli altri due venivano scaldati subito prima dell'utilizzo.
FILARE: il funzionamento era a pedale, tramite cinghia e pulegge il movimento veniva trasmesso al "filarino", il quale avvolgeva lana e altri filati.
FORBICI PER LA TOSATURA DELLE PECORE
ANTICO FORNO MONTANARO. Sulla sinistra possiamo notare un contenitore in legno di castagno, dentro il quale veniva posto il maiale per la sua lavorazione.
PICCOLA LAMPADA PORTATILE. E' composta da un bicchiere in vetro, entro cui veniva posta la candela, e dal coperchio in lamiera che serviva a proteggere la fiamma dal vento.
LAMPADE A CARBURO
LAVABO scolpito nella pietra.
MAZZUOLO: colpendo le zeppe di ferro con questo pesante strumento di legno, si evitava di rovinarne la testa. I due anelli di ferro servivano ad impedire lo sfogliamento del battente.
MESTOLI da cucina scavati nel legno.
Il PENNATO: simbolo per antonomasia del montanaro.
Serie di FORCALI e RASTRELLI.
SEGA di grandi dimensioni.

"TAVOLA PER L'INSEGNAMENTO DEL SISTEMA METRICO DECIMALE DEI PESI E DELLE MISURE". Era affissa all'interno della scuola al Poggio Dei Boschi.

TESTIERA per necci. I testi venivano riscaldati sul fuoco, e poi si inserivano in colonna. Tra un testo e l'altro si mettevano foglie di castagno e farina di castagne. Con la cottura si ottenevano i necci.

 

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