RESTI LONGOBARDI E GERMANICI
IN ALTO RENO
E' noto che arimannie longobarde si insediarono nell'Alta Valle del Reno
ed è altrettanto noto che la città di Pistoia fu eletta
sede di un Gastaldato longobardo con diritto a battere una propria moneta.
Numerosi studi storici dimostrano l'importanza e l'intensità della
presenza, nel medioevo, dei longobardi anche in queste terre, ma quello
che manca, tutt'oggi, è una ricognizione su quanto è sopravvissuto
nella nostra cultura e nei nostri dialetti di questa dominazione e, più
in generale, una ricognizione tesa ad individuare quanto è rimasto
nella nostra cultura e nei nostri dialetti dell'antica cultura germanica
(sia essa franca, gotica o longobarda, sia essa di adstrato o di superstrato).
Con questo lavoro (che ha assunto nel tempo dimensioni ponderose) ci piacerebbe
offrire un punto di partenza per successivi approfondimenti da parte di
tutti gli studiosi e gli appassionati. Da parte nostra, infine, siamo
convinti che il nostro lavoro potrebbe essere tranquillamente imitato
in molte altre parti della penisola Italiana (da Nord a Sud) con risultati
davvero interessanti (ad esempio il centro avellinese di Atripalda prende
il nome dall'antroponimo germanico Atripald mentre, tornando in Toscana,
i toponimi Dorna e Dornarotta a Civitella in Val di Chiana (AR) sembrano
proprio ricondursi al germanico dorn > spina. Passando dai toponimi
ai nomi comuni, e rimanendo sempre in provincia di Arezzo, si può
segnalare il termine 'salvo' che significa "sudicio" perché
ha origine dal longobardo salawu > sporco)
AMBITO DI RICERCA
La provincia di Pistoia (in particolare il territorio che fa capo ai comuni
di Sambuca Pistoiese, Pistoia e Montale Pistoiese) e i Comuni di Lizzano
in Belvedere, Granaglione, Castel di Casio, Camugnano, Porretta Terme,
Gaggio Montano. Il territorio (complessivamente circa 1300 Kmq di cui
965 kmq costituiscono la provincia di Pistoia) rappresenta sotto alcuni
importanti aspetti di natura storica, culturale e anche linguistica un
unicum estremamente interessante soprattutto ai fini della presente ricerca.
Il territorio del Comune di Sambuca Pistoiese, in considerazione della
sua particolare situazione storica e geografica, verrà considerato
all'interno di questo lavoro indifferentemente come parte integrante dell'area
altorenana e dell'area pistoiese.
LESSICO
Il Rauty registra i seguenti vocaboli d'uso pistoiese (e - aggiungiamo
noi - d'uso altorenano) di origine longobarda:
cafaggio da gahagi, greppia da kripja o kruppja, panca da panka, scaffale
da skaf, staffa da staffa, spanna da spanna, stecco da stek, stollo da
stoll, trogolo da trog, sbreccare da brehhan (cfr. p. 137 di N. RAUTY;
"Storia di Pistoia, Vol. 1, Firenze, 1988). A questi vocaboli lo
stesso Rauty aggiunge "cafaio", "gastaldio" e "scandola",
quest'ultimo da un non meglio precisato vocabolo longobardo (cfr. Op.
cit., p. 147).
Ma in effetti, molti altri vocaboli d'uso pistoiese e altorenano sono
di origine longobarda o germanica (con importanti gotismi), ad esempio:
becco (capra) da bikk, zolla da zolle, bergare (sostare per la notte)
da berga (alloggio), scranna (a Pistoia e in diverse zone dell'Alto Reno
col significato di 'donna sgraziata - specie per le gambe storte') da
skranna (sedile), scranna (questa volta nel senso di seggiola, che risulta
presente in Alto Reno e in alcune aree rurali del pistoiese come San Mommè
e Montale Pistoiese) sempre da skranna, aschero (desiderio, nostalgia)
da eiskon, stracanarsi (affaticarsi) da strak (teso, tirato), sempre da
strak abbiamo stracco (stanco) e straccaia (forte affaticamento), stocco
(fusto spec. del granturco) da stok (tronco d'albero), tanfo da thamf,
brace (altorenano brasge) da bras, bracino (tritume di brace / carbone
tritato) sempre da bras, strozza (nel senso di gola) da strozza, rosta
(l'argine per fermare le castagne che cadono) da hrausta, sghezza da skid,
bislacco da slahh + bis, zana (cesta per i panni lavati) da zainja (cesto),
burischio (usato a Treppio) da blutwurst (sanguinaccio), broda (il cibo
per i maiali) da brod, broda /brodaione (persona che parla troppo o a
vanvera) ancora da brod, balco (soffitta) da balk o palk (travatura),
biga, pistoiese biha, col significato di mucchio (longobardo biga con
identico significato), bernecche (ubriacarsi), berlocca (parlantina) e
berlecca (bugiarda) dal medio tedesco locche (richiamo da caccia) + prefisso
ber), gremmo (carico) da krammjan (riempire), gualca (quantità
indeterminata) da walka (pezza di feltro), bindella (ragazzaccia) da binda
in quanto aggira, abbindola , bindella (fettuccia) sempre da binda, rocchio
(pezzo di legno) da krukkja (bastone biforcuto), fiappo (floscio) da un
incontro tra il latino flaccus col sinonimo germanico schlapp, fiasca
(il fiasco rivestito di vimini con manico) da flasko, sbrecca (oggetto
malandato) da brehhan (rompere), breccia e breccino(entrambi col significato
di 'pezzetti di sasso frantumati') da brehhan, buriana (confusione da
alterco) da burjan (trovare un animale) e birhoffian (schiamazzare), chiocco
(colpo / botta) da klohhon (battere), ciuffi (capelli) e ciuffo (particolare
acconciatura dei capelli) da zopf, locco (termine che indica sia lo stupido
che la pula del grano) da luk (incerto / vuoto / non compatto di spighe),
da luk (per la sola area pistoiese) si ha anche locco nell'accezione di
persona che ha perso la propria vivacità per malessere o altra
ragione, groppo (nodo) da krupfa (massa rotonda), lecca percossa che ha
il corrispondente nell’inglese moderno to lick (colpo di bastone),
schergnare (deridere) da skernjan, grinfia (mano in senso spregiativo)
da grifan (afferrare), da un incrocio tra grifan e rampf si ha invece
rinfa (unghiello del gatto), ranfia (unghia lunga) e ranfio (gancio ad
uncino). E ancora si ha guaimme (fieno al secondo taglio) da waidanjan
(pascolo), berlingozzo (un dolce tipico pistoiese, ma attestato anche
in alcune località dell'Alto Reno) con prefisso germanico ber,
lornia e lorgna (fiacca / stanchezza) dal germanico lurna (stare alla
posta).
Probabilmente sono di origine longobarda (o germanica) anche termini come
"sghembare", sghengo, sghilembo, etc. E longobardi potrebbero
essere anche i termini bricca (dirupo) e "binde" (= cosa che
richiede molti sforzi). Al primo si può imputare una qualche somiglianza
con "bricco" e con "breccia" (entrambi i lemmi sono
derivati da parole longobarde), anche se è tutt'altro da escludere
un originaria radice celtica "bri" (cima). Al secondo si dovrà
riconoscere una indubbia somiglianza con il longobardo "winde"
per argano (si fa presente che in area pistoiese e altorenana non è
difficile trovare passaggi da V a B (vedi bacillare per vacillare)).
Per rosticcio (bimbo mingherlino) Guccini propone una origine dal germanico
raustian.
E ancora per l'Alto Reno:
sguillare (scivolare) da 'quillan' (zampillare), magone (ventriglio del
pollo) da mago (stomaco), nappa (nasone) da napp(j)a, blacco (straccio)
da vlek (pezzo di stoffa) o da blaich (pallido), sprocco (grosso spino
/ stecco) da sproh (germoglio), sbrecco da brehhan (rompere), sprucaglino
(bambino) dal germanico sproch (rametto) faldana (piccola forcata di fieno)
dal germanico falda (fascio), sbreggola (scheggia di legno lunga e sottile)
da brehhan (rompere), scaiia (un tipo di pietra) da skalia (squama, scheggia),
bricco (maschio della pecora) da tardo latino burricus (cavallo) + longobardo
bikk (capra), suppa (zuppa di verdure e pane raffermo) da longobardo supfa
(zuppa), banciolo (sgabello basso) e banciola (panca del focolare) da
bank. Mentre per l'area pistoiese si registra bilinchi (usato nel sintagma
"stinchi bilinchi"), bilenco (stupido) e pilenco (tonto, melenso)
che prevengono (come l'italiano sbilenco) da un longobardo link (mancino,
storto). In qualche località rurale pistoiese (alta valle dell'Ombrone)
sopravvive anche gheffo (balcone) da waif.
Per Francesco Guccini derivano dal longobardo anche i nostri stricare
(stringere), pilucare (italiano e toscano pilluccare), scaracchio (pistoiese
scaraglio), etc. E al longobardo brihhal risale, secondo Barbara Beneforti,
il termine badese bricola (= cosa da nulla). Se l'ipotesi della Beneforti
è corretta, come noi riteniamo, saranno di quasi certa origine
longobarda anche i termini briccica (bagatella, piccola parte di chichessia),
abbriccigo (oggetto di poco valore o che funziona male), abbriccicare
(cercare di aggiustare alla meglio), abbriccichino (ragazzino patito),
etc. presenti tra il pistoiese e l'Alto Reno.
Il nostro "bioscio" e il toscano "bioscia" (entrambi
col significato di "senza companatico - non condito") derivano
dal longobardo "blauz" col significato di 'nudo'. Sempre da
blauz si ha il termine "broscia" (variante sbroscia, con inversione
delle liquide l > r) ad indicare una bevanda o una minestra insipida
e cattiva. Dal longobardo zainja (cesto) viene il termine "zana"
usato ad Orsigna per indicare le bare per i bambini: "costumanze
per portare gli angeli: zana foderata di bianco e trina ed intorno all'orlo
orecchini, anelli e vezzi, catena, ecc." (R. Beccherucci Corrieri,
"Val d'Orsigna", Edizioni CRT, Pistoia, 2000, p. 105).
E questo senza dimenticare le forme italiane (tutte presenti in Alto Reno)
di albergo anch'esso (come il pistoiese bergare) da berga, stamberga da
stain + berga, benda da binda (legare, unire), palco da palk (travatura),
palchetto sempre da palk (ancora da palk abbiamo il "palco morto"
ad indicare le soffitte non praticabili), scuro da skur (protezione),
federa da fetzen, zaino (a Treppio esiste la variante zanghio) da zainja
(cesto), trappola da trappa, zecca da zihha, slitta e slittare da slita,
lesto da list (astuzia), strofinare da straufinon, trincare da trinkan
(bere), arraffare da hraffon, barella da beran (portare), scherzare da
skerzan, stordire da stornjan, stronzo da strunz (sterco), gora da wora
(chiusa), crampo (in molte località dell'Alto Reno è detto
granchio) da Krampf (crampo), zazzera (chioma ribelle) da zazza (ciuffo
di capelli), zanne da zann (dente), bega da bega (lite), bicchiere da
behhari, angheria (nell'antico dialetto di Treppio angaria), etc. in uso
anche nella lingua italiana.
E ancora stalla, sala (vedi il toponimo urbano de 'La Sala' a Pistoia,
la piazza del "leoncino" dove aveva sede il Gastaldo), etc.
(I)
A Montale Pistoiese si registra una variante originale di "balco"
(da palk > travatura) che viene usata per indicare i fienili in generale.
Sempre a Montale, e in altre aree del pistoiese, sopravvive anche "catro"
(da gatero > porta della siepe) voce usata per indicare i cancelli
rustici.
A Treppio sopravvive un originale derivato della lingua gotica "manassi"
(vestirsi) da un originale "manwjan" (preparare). In area pistoiese
abbiamo riscontrato anche "ammannire" (preparare per accendere
un braciere o uno scaldino) e "ammannare" (preparare in generale)
che derivano, entrambi, dalla stessa voce gotica.
In Alto Reno è invece da segnalare l'originale sostantivo maschile
"crocchio" che intende definire un gruppo di persone che conversano.
Anche per questo termine è stata proposta una origine germanica
assimilabile al medio alto tedesco kroten o all'inglese crowd (= folla
di gente). Sono di origine latina e non germanica invece i termini pistoiesi
e altorenani di crocchia e crocchione (= testone e suo accrescitivo) dato
che derivano dal latino cochlea con r epentetico.
Molto produttivo, in particolare appare il termine brehhan (corrispondente
gotico brikan) che ritroviamo, oltre nei casi sopra citati, in parole
come sbergolare, sberciare, bercio (tutti e tre col significato di urlare).
Particolare attenzione meritano i lemmi bercio e sberciare dato che rappresentano
un incrocio tra il tardo latino berbex (pecora) col nostro brehhan, il
significato letterale delle due parole, quindi, è "rompere
l'aria con belati da pecora" (sbergolare rappresenta, invece il caso
di un ulteriore incrocio di sberciare con gola).
Di origine germanica, ancora in esempio, è leppa (paura) che deriva
dall'antico germanico slipan, e germaniche sono altre parole di uso quotidiano
come busco (corpuscolo nell'occhio), dal gotico busk.
A volte l'origine delle parole da radici germaniche risulta particolarmente
complicata. Tale è il caso del termine "brocco" ad indicare
il ramo; come è noto l'etimologia del termine "brocco"
va ricondotta al latino "broccum" (sporgente) e tale è
il senso in Varrone ("dentes brocchi"), ma più tardi,
per influsso del longobardo sproh a cui brocco assomiglia foneticamente,
il significato originario del termine si è esteso fino a ricomprendere
l'attuale valore di "ramo". E attraverso un ulteriore passaggio
è possibile ipotizzare una genesi "germanica" per il
vocabolo d'uso pistoiese ed altorenano "brocciolo" ad indicare
un pesce (nome scientifico cottus gobius) in qualche modo affine al ghiozzo
di fiume: Secondo alcuni, infatti (cfr. La Musola n. 33 (1983), p. 105),
il termine "brocciolo" deriva da "brocco" (rametto)
a sua volta derivato dal longobardo / germanico "sproh" come
abbiamo potuto vedere sopra. Se l'ipotesi dovesse essere fondata sarebbero
parole di derivazione longobarda indiretta anche "brocciolare",
"brociolio", "brocciolone" (tutte riferite al parlare
confusamente) originate da un’antica tradizione (la cui memoria
è quasi scomparsa) che vuole questi animali emettere dei sordi
borbottj.
E' da osservare che in Alto Reno il numero di parole longobarde è
maggiore non solo rispetto all'italiano, ma anche rispetto al pistoiese
(vedi ad esempio 'magone'). Pertanto, pur trovandoci di fronte a un modesto
bottino, si può sostenere che anche il lessico conferma che l'Alto
Reno non è stato completamente assimilato e che l'afflusso di elementi
germanici fu in passato di non lieve importanza (II).
Molto interessante è il termine pistoiese "feudino" (persona
furba / persona che veste con estrema ricercatezza) che deriva dal longobardo
"fehu" (bestiame). In entrambi i casi il termine pistoiese sottintende
un riferimento alla ricchezza (in un caso ricchezza d'ingegno e nell'altro
possibilità economica di potere vestire in maniera ricercata),
e ciò è di grande aiuto nel ricostruire l'etimologia del
termine: fino a tempi recenti il bestiame era la ricchezza più
importante e tale significato è passato nell'espressione "pagare
il fio" e nel composto, ormai desueto, di metfio ("dono del
fidanzato alla fidanzata che viene consegnato il giorno delle nozze").
E rimanendo in tema di espressioni contenenti termini germanici ricordiamo
il proverbiale pistoiese "orma' son brenna". Il termine brenna,
usato nel pistoiese e in alcune località dell'Alto Reno per indicare
persone, animali, cose vecchie o di nessuna utilità, ci pare ricondursi
all'istituzione longobarda della "bremma" (con variante "brenna")
che consisteva nel tributo dovuto ai signori per il pasto dei cani da
caccia... come dire che qualcuno in brenna è pronto a farsi pasto
per il cane!
Tutti questi elementi lessicali ci aiutano, peraltro, a capire come "anche
nel territorio pistoiese la lingua dei Longobardi fu assai diffusa ed
usata a lungo" (N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I,
Le Monnier, Firenze, 1988, p. 146) in una situazione di sostanziale bilinguismo
che sopravvisse più a lungo rispetto alle aree urbane: "La
rapida ssimilazione della lingua latina fu un fenomeno che interessò
principalmente le città, nelle quali si svolgeva ogni attività
di vita pubblica, civile e religiosa, dove il clero, i notari, i funzionari
delal corta del duca o del gastaldo usavano costantemente questo linguaggio
nei testi scritti, nelle preghiere, nei rapporti ufficiali... Diversa
era la situazione nelle campagne, dove le esigenze di carattere culturale
o giuridico erano quasi del tutto assenti. La contemporanea presenza sullo
stesso territorio di due gruppi etnici, sia i lavoratori romanici degli
antichi latifondi, sia i massari longobardi delle nuove curtes, ed il
loro quotidiano contatto nella comune fatica della coltivazione della
terra, rese naturale il passaggio di numerosi vocaboli longobardi nel
lessico di quel nuovo linguaggio volgare che andava lentamente formandosi,
on voci per lo più legate al mondo rurale, rimaste poi anche nel
moderno italiano" (N. RAUTY, "Il Regno longobardo e Pistoia",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2005, pp. 139 - 140).
Per i termini "ussare", "anda", "renga",
"aschio", "biasciare", "biscia", "fallace",
"stecconire", "montone", "troga", "trogolo",
"trogolaio", etc. si rimanda all'elenco appositamente realizzato.
Unica, ma fondamentale, avvertenza che si dovrà tenere in giusta
considerazione è questa: non tutti i termini germanici che potrete
leggere nell'elenco dovranno essere assegnati al superstrato longobardo
- franco - gotico; le lingue, come è noto, si parlano ed i vocaboli
viaggiano. Un termine pistoiese che ricorda un termine tedesco può
darsi, così, che non sia da addebitare ai Longobardi, ma ai tedeschi
stessi ed essere giunto da noi usando le più varie strade... Per
quanto poi attiene ai termini simili a quelli in uso nella lingua franca
e rintracciati nella nostra ricerca andranno considerati altri due aspetti:
a) In primo luogo l'eccessivo ricorso, da parte degli studiosi, al francese
e al provenzale per spiegarne la presenza in Italia. Troppo spesso, infatti,
il francese e il provenzale sono stati utilizzati come utile scusa per
spiegare i germanismi in italiano e ciò a scapito di una più
seria indagine che ne rionoscesse l'origine diretta germanica (ad esempio
la voce spiedo, riconosciuta longobarda dal Dizionario Etimologico Zanichelli
a pagina 1180 dell'edizione minore 2004, viene presentata come prestito
francese di un originale francone "speot" a pagina 1231 del
medesimo Dizionario). Troppo spesso infatti si dimentica che è
davvero difficile riconoscere in italiano (e nei suoi dialetti) l'epoca
e l'origine di una parola germanica:
"La difficoltà di determinare l'epoca e l'origine delle parole
germaniche è particolarmente grave in Francese e in Italiano, perché
in queste due lingue, che più fortemente delle altre romanze hanno
subito prolungati e vari influssi germanici, si presentano allo studioso
parecchie possibilità che i criteri linguistici e storico - culturali
non sempre sono sufficienti a far distinguere con sicurezza" (C.
TAGLIAVINI, "Le origini delle lingue neolatine", Patron Editore,
Bologna, 1999, p. 287);
"Nel lessico italiano rimangono tracce di tre sedimentazioni principali,
dovute a ciascuna delle genti che abbiamo ricordate: ai Goti, ai Longobardi,
ai Franchi. Non è sempre facile distinguere fra loro questi tre
strati... [ad esempio] manca il modo di decidere in vari casi. Così
- per citarne alcuni - buttare, greppia, spiare (e spia) potrebbero esser
goti o franchi; lasca 'pesce d'acqua dolce della famiglia dei ciprinidi',
schiatta, sghembo, gotici o longobardi (e lo stesso si dirà di
forra); anca, arrostire germano - latini o longobardi o franchi; grappa
'ferro piegato ai due lati' (da cui aggrapare, grappolo) germano - latino
o franco, meno probabilmente gotico" (A. CASTELLANI, "Grammatica
storica della lingua italiana - introduzione", il Mulino, Bologna,
2001, pp. 54, 55)
b) Che in ogni caso molti dei termini germanici effettivamente pervenuti
nella lingua italiana, e nei nostri dialetti, per tramite del francese
e dell'occitano sono da addebitare alla comune appartenenza del Nord Italia
e, sia pure in misura minore, della Toscana all'Area Linguistica "Carlo
Magno" (vedi il successivo paragrafo dedicato alla morfologia ed
alla sintassi). A tutt'oggi, infatti, non ci pare sia stata offerta la
necessaria attenzione alle parole del linguista Carlo Tagliavini:
"Per tutto il secolo IX e il secolo X, i rapporti fra le due parti
del dominio franco, francese e italiana, sono intensissimi e sempre più
abbondante è il numero di Franchi o Francesi in Italia. All'inizio
del secolo XI, abbiamo poi le conquiste dei Normanni, ormai Francesi di
lingua, nell'Italia meridionale e la formazione di un regno normanno nell'Italia
meridionale e in Sicilia e nei secoli XI e XII imprese comuni franco-italiane
sono rappresentate dalla prima e specialmente dalla seconda crociata...
Il commercio con la Francia, già abbastanza fiorente ai tempi di
Carlo Magno, si intensificò nei secoli successivi. Da tutte queste
premesse storiche è pienamente comprensibile l'apporto linguistico
del Galloromanzo all'Italiano, specialmente nel periodo delle origini"
(C. TAGLIAVINI, "Le origini dell elingue neolatine" Patron Editore,
Bologna, 1999, p. 333).
Noi riteniamo, pertanto, che sui prestiti germanici derivanti dalla lingua
francese attestati dai più diversi Dizionari Etimologici andrebbe
aperta una più ampia riflessione.
QUATTRO ESEMPI DIALETTALI CON TERMINI LONGOBARDI O GERMANICI
1. lizzanese (provincia di Bologna ai confini con il pistoiese)
"gua' cl'albero comm' l'è gremmo ed cilesge" (fonte "E...
viandare", rivista lizzanese, Anno I, n. 2, ottobre 2003, p 64)
2. Alto Appennino Pistoiese (ai confini con il bolognese)
"m'è venuto l'aschero delle more, son'ito giù per i
grebicci e n'ho colte una gualca" (fonte G. JORI, "Alta Montagna
Pistoiese", Diple Edizioni, Firenze, 2001, p. 19)
3. Montale Pistoiese (ai confini con il pratese)
"La lapida al comandò s'aprì e Menico infilziò
dientro alla buca e vedde uno stanzone gremo d'ugni ben di Dio" (C.
LAPUCCI, a cura di, "Fiabe toscane", Mondadori, Milano, 2002,
p. XXIII).
4. Città di Pistoia
"stinchi bilinchi/ diavoli stinchi/ filundè d'un tedesco/
tira su 'l piede destro" (Tradizionale di Pistoia)
FITONOMI
Anche il nome locale di alcune piante ci pare possa tradire l'uso di parole
di origine longobarda o germanica (anche se nessuna di queste probabilmente
è mai stata battezzata da popolazioni germanico - barbariche).
Origine certa per la "barba di becco" (longobardo bikk), una
erba annuale (nome scientifico "tragopogon pratensis") a fiori
gialli. Sempre tra i nomi di piante di origine longobarda abbiamo il pistoiese
e altorenano "strozzichi" / "strozzighi" (dal longobardo
strozza = gola) ad indicare una pianta spinosa che produce piccoli frutti
aspri. Da krupfa kruppa potrebbe derivare "groppi" ad indicare
una varietà di erica.
Più complessa è l'attribuzione del termine raggia (= rovo)
in uso nell'Alto Reno e in alcune località dell'Alto Appennino
pistoiese (es: Pracchia). Generalmente si fa discendere il termine raggia
da una radice latina "radius" (= bastoncino), ma è assai
più probabile che l'origine del termine sia da ricondursi al longobardo
"razziam" (= graffiare)(III). A conferma della nostra ipotesi
adduciamo la presenza di un chiaro toponimo latino - longobardo presente
nei pressi di Villa di Piteccio: Spinarazza (nella nostra zona di interesse
sono invero piuttosto numerosi i toponimi che presentano la forma "razza",
ad esempio Razzinella a Granaglione). Evidentemente, nel corso dei secoli,
in area pistoiese il valore di razza (raggia) per rovo è andato
perduto, mantenendosi solo in aree marginali montane, mentre è
rimasto inalterato nell'Alto Reno. Peraltro la voce rimane ben viva in
altri dialetti toscani o toscaneggianti come nella regione maremmana,
in Corsica (rada ad Aiaccio), nel grossetano (a Gavorrano razzo), nell'Isola
del Giglio (spinarazolo), nel pisano (a Chiani raggia), etc. (cfr. G.
Rohlfs, "Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni,
Firenze, 1997, p. 175).
Dalla stessa radice longobarda discendono anche i termini "razzare"
(=grattare, raschiare) e i vocaboli treppiesi "razzadoia" (=
arnese per raschiare il tagliere) e "razzinedo" (= terreno incolto
dove non cresce vegetazione). A San Mommè e in qualche località
rurale pistoiese sopravvive, con enorme difficoltà, un derivato
di raggia forse acquisito dai boscaioli delle vicine realtà altorenane:
razola (rovo con lunghe spine rovesciate).
Passando ai funghi segnaliamo i termini Spia e Grifo: la Spia (voce di
sicura origine germanica) indica a Frassignoni la cosiddetta Mazza di
Tamburo, mentre grifo (ovvero il barbagino) dovrebbe derivare da grifan
(afferrare) per tramite di grinfia (= mano). Tra i possibili nomi di origine
germanica non andrà dimenticato poi "Raigaggni" >
chiodino (Armillaria Mellea) che, per Francesco Guccini, dovrebbe derivare
dal gotico "wranks" col significato di "avviticchiarsi".
Può darsi, così, che la voce, germanica, sia stata accolta
anche dai longobardi. A tale proposito è bene precisare che, nonostante
il fatto che la lingua longobarda ha partecipato alla cosiddetta "seconda
Lautverschiebung" (a cui il gotico non ha partecipato), la sopravvivenza
di alcuni elementi gotici nel longobardo fu facilitata dalla fusione dei
goti stessi con i romani prima e i longobardi poi (cfr. C. TAGLIAVINI,
"L'origine delle lingue neolatine", Patron Editore, Bologna,
1999, p. 290) (IV). In questa maniera si possono spiegare altri termini
gotici sopravissuti nei dialetti locali come il lizzanese "struiccio"
(= persona mingherlina) che secondo la rivista lizzanese "E... viandare"
(n. 3/ 2004, p. 20) discende dal gotico "straupjan" (= soffregare)
Rimanendo in tema di parole derivate dal longobardo bikk si segnala la
presenza anche di "saltabecco" (letteralmente "saltacapra")
a significare la cavalletta, nonché nell'alta montagna pistoiese
(es: Cutigliano) di "becca" ad indicare la pecora.Tornando in
tema di piante segnaliamo, infine, la presenza di alcuni frutti non commestibili
di arbusti (olivello spinoso, salsapariglia, caprifoglio) tutti genericamente
indicati con la doppia dizione di "uva delle vipere" (variante
"uva delle bisce") e "uva di San Giovanni". Rintracciare
separatamente una delle due varianti in quanto tale non è molto
significativo (sembra che l'espressione di "uva delle bisce"
sia presente perfino in Sardegna) è invece assai significativo
rintracciare la doppia dizione bisce (vipera) / San Giovanni, e ciò
in relazione all'importanza che San Giovanni e le vipere (rispettivamente
nella fase cristiana e pagana) ebbero nella cultura e e nella religione
longobarda.
NOMI DI PERSONA
Ancora oggi sono utilizzati nomi di origine chiaramente alto - germanica
come Edgardo, Ermengarda, Ermenegildo, Valfrido, Frida, Gerardo (Gherardo),
Ugo, Valdo (dal longobardo Bald = ardito). Numerosi sono anche i cognomi
di origine longobarda fra cui l'ormai raro "Gastaldi" oppure
"Sibaldi". Altre volte, invece, la sopravvivenza del nome germanico
è stata possibile solo a prezzo di una sovrapposizione del termine
germanico con altri termini di derivazione latina e meditterranea; è
il caso, ad esempio, di Hildjo (un nome proprio col significato di combattimento
e dal quale derivano composti come Brunilde) che, attraverso una contaminazione
col latino Ilia (fianchi) e col nome della città di Ilio (Troia),
ha derivato due rari nomi pistoiesi: Ildo e Ilio. Nella "Historia
Longobardorum" Paolo Diacono ricorda un Ildichis (I,21), un Ildeprando
(VI, 54, 55) e un Ilderico (VI 55), mentre il più antico testo
di poesia epica germanica a noi pervenuto è dedicato all'eroe Ildeprando
(lo "Hildebrandslied" ambientato nella penisola italiana ai
tempi di Odoacre che taluni attribuiscono proprio all'epica longobarda
nonostante sia giunta a noi per tramite di una trasposizione in tedesco
antico del IX secolo). Tornando al cognome Sibaldi sopra menzionato ricorderemo
che lo stesso è tipico e quasi esclusivo di Pistoia (su 44 cognomi
registrati nelle pagine bianche di Virgilio ben 24 sono in provincia di
Pistoia e 28 in Toscana) e deriva dal nome di origine longobarda Sigebaldus
di cui abbiamo un esempio nel Codice Diplomatico della Lombardia medievale
sotto l'anno 1182 a Sartirana (PV): "...Nona pecia iacet in valle
de Stagnono; coheret ei: de duabus partibus Sigebaldus de Lomello, a tercia
Asclerius de Roglerio...", tracce di questa cognomizzazione le troviamo
nell'Archivio storico comunale di San Miniato (PI) in atti dell'anno 1583
dove compare l'Ufficiale Benedetto Sibaldi da Montecatini (PT).
Ovviamente i nomi odierni sono solo la sopravvivenza di una ben più
diffusa tradizione medioevale: le carte pistoiesi del medioevo sono piene
di nomi longobardi (Gaidoald, Alhais, Ildebrand, etc., etc.), ricchissimi
sono anche le testimonianze per l'Alto Reno con i vari Sigifrido, Agiki,
Enghelberto, Tegrimo, Alboino, etc., etc. (in proposito si consiglia di
leggere l'articolo di Paola Foschi "Note di onomastica pistoiese
medioevale", pubblicato alle pagine 49 - 85 del Bullettino Storico
Pistoiese Anno CV (2003) - Terza Serie - XXXVIII).
per sapere qualcosa sulla percentuale di nomi germanici nella popolazione
dell'Alto Reno (la presenza di nomi germanici in un territorio in quanto
tale non ha nulla a che fare con la germanicità della popolazione,
tuttavia tanto è maggiore la presenza di nomi germanici in un territorio
tanto più intensa sarà stata, su quello stesso territorio,
l'influenza superstratista delle popolazioni germaniche)clicca qui
SANTI
Numerose sono le dedicazioni di Chiese a Santi cari alla popolazione longobarda
(ad esempio i 'Santi Guerrieri' Michele e Giorgio). In particolare i Longobardi,
accolsero con favore il culto per l'Arcangelo, contribuendo al suo sviluppo
e diffusione, poiché questo santo, rappresentato come comandante
delle milizie celesti e dominatore delle forze naturali e demoniache,
ben si prestava a una trasposizione nella mitologia germanica: i Longobardi
una volta convertiti al cristianesimo, sovrapposero e assimilarono la
devozione per San Michele al culto per Odino/Wotan, il maggior dio del
Walhalla.
Anche il culto dei Santi orientali, attestato non solo dai rari San Potito
(Alta Valle dell'Agna) e Sant'Atanasio (all'Orsigna), ma anche da alcuni
San Mommè (V) (la forma Mommè non deriva da Tommaso, come
pensava il Rohlfs, ma da San Mamante di Cesarea), San Salvatore (a Fontana
Taona e in via Tomba di Catilina a Pistoia), Sant'Andrea, San Tommaso
(ad esempio a Costozza), si spiegano facilmente attraverso l'azione dei
missionari orientali nelle terre longobarde (vedi N. Rauty, op. cit, pp.
84 ss.).
Relativamente al culto di Sant'Andrea andrà ricordato come fino
al XVIII secolo nella Chiesa cittadina di Sant'Andrea era praticato il
battesimo pentecostale secondo l'uso delle chiese missionarie. Lo storico
pistoiese Natale Rauti suggerisce addirittura la possibilità che
la Chiesa di Sant'Andrea fu fondata nel VII seoclo da missionari orientali
cattolici, in contrapposizione al clero d al vescovo della cattedrale
che dovevano essere ariani (N. RAUTY, "Il Regno Longobardo e Pistoia",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2005, p. 246).
E sempre di origine missionaria in terra longobarda sono i culti dedicati
Sant'Ilario e Sant'Agata. A Sant'Agata, una delle protettrici della città
di Pistoia, è dedicata la Chiesa di Monteacuto. A Sant'Ilario è
invece dedicata la Chiesa nei pressi di Monte di Badi. Per quest'ultima
chiesa i documenti medioevali riportano il titolo nella forma di Sant'Ellero,
secondo la pronuncia greca (cfr. AA.VV., "Torri: storia, tradizioni
e cultura", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003,
pp. 51 - 58). Ai Santi Orientali Quirico e Iulitta è dedicata una
Chiesa a Castel di Casio. Diversi toponimi nelle valli della Bure prendono
nome sempre da San Quirico (tra cui l'idronomo Fosso di San Quirico).(VI)
Anche le Chiese dedicate a San Bartolomeo (si pensi a quella famosissima
di Spedaletto nell'Alta Valle del Limentra di Sambuca o a quella non meno
celebre di Pistoia), San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista
(si pensi a San Giovanni Fuoricivitas) e a San Martino (ad esempio l'oratorio
nei pressi della Torraccia di Torri, la Badia di San Martino in Campo,
la Chiesa di San Martino e San Jacopo di Uzzano) sono riconducibili alla
grande devozione che i longobardi avevano per questi Santi (cfr. anche
N. Rauty, Storia di Pistoia, vol. 1, p. 123)(VII).La presenza di toponimi
dedicati a Santi cari alla popolazione longobarda può essere utile
anche per rintracciare altri possibili toponimi di origine germanica.
Ad esempio è assai noto che la presenza di chiese o toponimi dedicati
a San Bartolomeo sono generalmente spie di una massiccia presenza longobarda
(cfr. AA.VV., "La Sambuca Pistoiese", Società Pistoiese
di Storia Patria - Nueter, Pistoia, 1992, p. 37), pertanto in presenza
di un agiotoponimo o di una Chiesa (purché antica) con dedicazione
a San Bartolomeo è lecito aspettarsi la presenza di altri toponimi
germanici: è il caso Prunetta (frazione di Piteglio) che ha un
interessante toponimo S. Bartholomeus super prata e una borgata Rifredo
(un antroponimo chiaramente germanico a meno che non si immagini una origine
da "Ri(o) Fred(d)o").
Rimanendo in tema di Santi, ed anticipando delle riflessioni sulla toponomastica
locale, chi scrive è dell'avviso che dovrebbe essere approfondito
anche lo studio dei toponimi relativi ai monti. In alcuni casi, infatti,
possiamo trovarci a che fare con lasciti direttamente longobardi o dei
missionari orientali in terra longobarda. E' il caso, ad esempio, di Poggetto
San Biagio (altezza 750 m slm) la cui attribuzione è sicuramente
da ricondursi a un antico luogo di culto cristiano che dovette sorgere
al posto di un precedente fanum sconsacrato (cfr. N. RAUTY in AA.VV.,
"Dizionario Toponomastico delle Valli della Bure", op. cit.,
p. 26). Ancora Rauty riferendosi a questo toponimo fa riferimento alla
seguente opera: G. BOGNETTI, "I 'loca sanctorum' e la storia della
Chiesa nella terra dei Longobardi", in IDEM, "Età longobarda",
III, Milano, Giuffrè, 1996, pp. 303 - 345, ed in particolare pp.
309 - 310.
E' peraltro di tutta evidenza, sulla base degli elementi documentali,
che la presenza di numerose chiese (anche con esplicite dedicazioni a
Santi orientali) è da attribuire a una fondazione longobardica:
"Durante i regni di Liutprando (712-744), Rachis (744-749), Astolfo
(749-756), Desiderio e Adelchi (756-773) i Longobardi risultano sparsi
in tutto il territorio pianeggiante e colinare del pistoiese, e fanno
costantemente capo alla città di Pistoia. In essa hanno fondato
chiese e monasteria: S. Anastasio (8 settembre 748); S. Silvestro (9 luglio
764), sotto la regola di San Benedetto; S. Bartolomeo, fondato da Gaidoaldo,
medico dei re Desiderio e Adelchi, prima del 9 luglio 764, anch'esso obbediente
alla regola benedettina; S. Maria a Piunte, che già esisteva il
9 aprile 767; San Michele (in Forcole), ricordato per la prima volta in
età carolingia (19 dicembre 775) come fondato da un longobardo,
Auspert. Così pure nel territorio, dove risultano erette dai Longobardi
la chiesa e monastero dei SS. Silvestro e Angelo a Monticunule prope flubio
Neore, sotto la regola benedettina (già esistente il 9 luglio 764),
la chiesa di S. Maria a Capezzana, oggi in territorio pratese (menzionata
il 24 gennaio 776), la chiesa di San. Giorgio all'Ombrone (ricordata il
7 maggio 784)" (L. GAI, "Quarrata dalle origini all'età
comunale", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1986,
p. 25)
TOPOGRAFIA
Anche la topografia manifesta chiari esempi del lascito longobardo - germanico
(il che, ovviamente, non vuol dire che tutti i toponimi con etimologia
germanica siano da attribuire ad una diretta discendenza longobarda, franca
o gotica), ad esempio:
Da Gahagi (bosco sacro, bandita, recinto) abbiamo Gaggio Montano, Gaggio
di Treppio (Comune di Sambuca Pistoiese), Lagacci di Sambuca Pistoiese
(da La Gahagi), e, nel Pistoiese, Cafaggio presso la Chiesa di San Michele
ad Agliana. Sempre da una radice Gahagi deriva per Mastrelli il toponimo
Biancaggio (> Pian di Caggio).
Da una radice germanica latinizzata del tipo *tupa (vedi C. TAGLIAVINI,
Le origini delle lingue neolatine", Patron, Bologna, 1999, p. 309)
oppure da *tupp-az (cfr. N. FRANCOVICH ONESTI, "Filologia Germanica",
Carocci, Roma, 2002, p. 149) derivano toponimi del tipo Toppoli e Topolini
(quest'ultimo riconosciuto per le Valli della Bure da Mastrelli). Sempre
da *tupa deriva la voce toscana e pistoiese toppo ad indicare il ceppo
e il tronco d'albero.
Da una parola germanica affine al moderno pflaster abbiamo toponimi come
Lastra Bruciata (in Comune di Porretta Terme ed altri). Secondo lo storico
Muratori, infatti, la parola "lastra" deve essere di origine
germanica ("Potrebbe mai darsi che da lata strata abbreviato fosse
nato lastra? A me nondimeno sembra più verisimile l’origine
Tedesca").
Da Trog abbiamo Fonte ai Troghi sia nell'Alta Val dell'Agna che Presso
Fontana Taona (per alcuni anche Taona deriva da un antroponimo longobardo
del tipo Taodolfo o Taodelperto). Ancora dal longobardo Trog abbiamo 'Trogoni'
in Comune di Granglione e numerosi altri toponimi sia al di quà
che al di là del crinale appenninico (ad esempio il toponimo "i
Troghi" e l'idronomo "Forra dei Troghi" nei pressi di Pian
di Giuliano nell'Alta Valle dell'Ombrone e "Fosso dei Trogoli"
in territorio sambucano).
Da Wald (bosco, selva) abbiamo Valdi, tra San Mommè e la Collina.
Dall'onomastico Ald abbiamo Cataldera sempre nei pressi di San Mommè.
Da Behhari (bicchiere) abbiamo Bicchierino presso il Vizzero e il Bicchiere
presso l'Orsigna.
Da Watha (guardia) abbiamo nel pistoiese La Gatta, Gatta e Gattaro in
Comune di Camugnano, Casa Gatti a Torri (Sambuca Pistoiese) e, nei pressi
di Borgo Capanne (fraz. di Granaglione), il Gatto.
Da Warnen (guardarsi) abbiamo per il Benati Granaglione (in dialetto locale
"Garnaion")(VIII).Dalla stessa radice germanica si ha anche
il vocabolo pistoiese "guarnigione" usato per indicare la custodia
di un fondo rustico fatta dal guardabosco.
Da Berin (orso) abbiamo vari antrotoponimi quali Cà Berna (da Bernardini)
presso Lizzano, Casa Bernardoni presso la Sambuca, Casone Bernoro etc.
Da Luk (incerto / vuoto) abbiamo un Sasso del Locco nei pressi di Piteccio,
un Cason dei Locchi nel Comune di Granaglione ed altri toponimi.
Da Sunder (isolato) abbiamo Sondine nei pressi di Lupiciano. In alternativa
è possibile una origine anche dall'aggettivo derivato "sundriale".
Da Furha i vari For, Fora, Foroni, Forra, etc. Sempre da Furha si hanno
toponimi come Falabuia (per Mastrelli proviene da lgb. "Furha"
+ lat. "burius"), Frassignoni e Framerigola (dove "fra"
potrebbe essere, in concordanza col Mastrelli, una deformazione di "forra"
in protonia") coi significati di Forra Buia (vedi un analogo fosso
della Forra Buia nei pressi di Pistoia), Forra di Amerigo, Forra Seniroris.
Da una radice skalja presente anche in gotico si ha la località
di Lo Scaglieri (un gruppo di campi in stato di abbandono posti ad ovest
di Forra Al Pitta).
Da Skina abbiamo "Schiena d'Asino" al Vizzero (in provincia
di Bologna, ma presso Pracchia (PT)).
Da Wora si hanno diversi Gora, Goraio, Gorella e numerosi altri derivati
(la prima attestazione del termine in area pistoiese risale al 726 ed
è relativa ad un fossato derivato dal torrente Brana). A livello
locale abbiamo rintracciato (ad esempio a Pavana) il diminutivo gorello
utilizzato come termine di uso comune per indicare piccoli fossi.
Da Busk abbiamo i vari Boschi, Bosco, Boscacci, Boscaccio, etc.
Da Wad + latino "vadum" abbiamo Guado nelle Valli della Bura
e altri analoghi toponimi.
Da Wazzer (acqua) invece si ha Guazzatoio nei pressi di Pistoia nonché
altri toponimi come il Fosso del Guazzatoio. Dalla stessa parola germanica
deriva il termine locale "guazza" a indicare il bagnato, specie
da rugiada nonché "sguazzare" (= agitarsi nell'acqua).
Da Lama (secondo Paolo Diacono si tratta di voce longobarda col significato
di stagno / ristagno di acqua(IX)) abbiamo l'idronomo fosso della Lama
nei pressi della Piana delle Fabbricacce e alcuni toponimi Lama (un prato,
un torrente e una fontana) nei pressi di Pavana Pistoiese, un podere La
Lama in Comune di San Marcello Pistoiese, etc. Al tipo Lama appartiene
anche il toponimo La Macava (nei pressi di Bardalone) che deve la sua
forma attuale a un fenomeno di aplologia (originale La Lama Cava), nonché
toponimi come La Miserre (con discrezion e dell'articolo), Ramiserre (con
rotacismo), Lambore, Lomoscina, Ramoscina (tutti riferiti ad acquitrini,
sorgenti, corsi d'acqua). A radice non germanica, ma anaria sono da ricondursi
idronomi come Lima (probabilmente relitto ligure) e Limentra (per Mastrelli
e Pieri derivano da un antroponimo etrusco Armena).
Per il Rauty (op. cit., pp. 120, 137) sono longobardi anche Spannarecchio
(presso Pistoia), Scaffaiolo (il lago vicino al Corno), Scaffolino, Cafaggiolo
e Catrello (nel pistoiese). Per la voce Scaffolino, infatti, non è
difficile rintracciare l'etimo nel longobardo "staffal" (fondamento,
palo di confine, cippo) con scambio di "st" in "sc"
che risulta attestato dal Pellegrini in Toscana. Quanto agli altri termini
basterà pensare a spanna, gahagi, gatero. Diverso è, invece,
il caso di Scaffaiolo che potrebbe derivare da staffal come attestato
da Rauty e da moltialtri studiosi, ma che tuttavia potrebbe derivare da
un latino scapha (greco scafe > conca) attestato in documenti medioevali
anche nel senso di condotta, fossa. Il nome Scaffaiolo, in analogia ad
altri toponimi italiani come il pescarese Scafa, potrebbe così
designare non tanto un luogo di confine (lgb staffal), ma un luogo ove
si raccolgono le acque.
Per il Zagnoni Scolca, nei pressi di Granaglione, è di origine
germanica (vedi "Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione"
a pagina 24) e, infatti, abbiamo il gotico e longobardo "sculca"
col significato di 'posto di guardia' (si ricordi che l'Alto Reno era
abitato da arimannie longobarde che si dovevano contrapporre ai bizantini
della media valle del Reno).
Di particolare interesse toponimi del tipo Panchetti o Panchine (ad esempio
"i Panchetti" nei pressi di Acquifredola) che sono derivati
dal longobardo pank / bank, qui nel valore di "terrazzamenti".
Il toponimo Le Panche, invece, è da ricondursi a una parola germanica
con radice *bank (= banco di terra).
Anche certi antroponimi (ad esempio Aldaio e Campaldaio presso Treppio
e Torri (dall'antrop. Aldhari)) tradiscono una origine germanica. E Germanico
è il toponimo Calinfranco (presso San Pellegrino al Cassero, fraz.
di Sambuca Pistoiese) così come germanico è l'etimo dei
vari toponimi Borgo (burgs > villaggio, paese). Alcuni toponimi tuttavia
dimostrano quanto sia facile cadere in errore nella ricerca dei lasciti
germanici. Ad esempio in comune di Lizzano in Belvedere troviamo un "Burgon
di Gatti" che potrebbe essere tradotto, all'incirca, "Paese
con postazione di guardia", ma questa traduzione è sbagliata
dato che "burgon" nel dialetto locale indica l'albero cavo del
castagno. Il toponimo Burgon di Gatti semplicemente indica un albero cavo
di castagno che appartenne a un qualche signor "Gatti".
Secondo il celebre professore Carlo Alberto Mastrelli dell'Università
di Firenze (cfr. AA.VV., "Le Valli della Sambuca", Sambuca Pistoiese,
1997) anche Treppio potrebbe derivare da un longobardo Trippon (calpestare).
L'interpretazione di Mastrelli ribalta autorevolmente l'etimologia generalmente
proposta che vuole Treppio collegato al latino trivium (incrocio di tre
strade)
E poi...
Alcuni toponimi del tipo Sala (oltre al già citato La Sala nel
centro urbano di Pistoia ricordiamo anche un Sala nelle Valli della Bure).
Per il significato preciso dei due toponimi si rimanda alla voce dedicata
a "sala" nel Dizionario appositamente realizzato.
Vizzero (frazione di Granaglione): per il Mastrelli la voce deriva dal
longobardo wizza > "bosco comunale con diritti esclusivi".
Nella zona di Vizzero, Granaglione e Frassignoni erano presenti numerose
e vaste "bandite", ovvero territori comunali dove erano esercitati
alcuni diritti esclusivi (ad esempio il legnatico).
Gualazza (presso Torri): la prima parte del toponimo (un boschetto) potrebbe
derivare dal longobardo wald con trattamento fonetico di tipo italiano
(es: l'italiano guerra viene dal francone werra) con intrusione di guazza.
Valchiera di Lentula (un antico opificio presso Torri): dal tedesco antico
walkan. E sempre da walkan si ha Valtiera nei pressi di Torri.
Valtanghera (in comune di Sambuca Pistoiese): dal longobardo "thingare"
(rendere legalmente libero).
Greglio (nei pressi di Vigo): dal longobardo grelgo
Pellegrinesca (in comune di Sambuca Pistoiese): dall'antroponimo Pellegrinus
+ suffisso germanico -iska. Con suffisso -iska troviamo anche alcuni antrotoponimi
come Gatteschi, Rio dei Gatteschi e Fosso dei Gatteschi che presentano
lo stesso suffisso germanico -iska.
Fora di Bernio (nei pressi di Torri) potrebbe essere collegato a wern
(con passaggio di tipo V > B tipico di queste zone). Nella vicina provincia
di Prato esiste un comune di Vernio (per Vernio tuttavia è da tenere
presente anche il personale latino Vernius).
Batoni (nell'Alta Valle dell'Ombrone Pistoiese) da un onomastico Bauto,
-onis documentato proprio nella Valle dell'Ombrone in una carta del periodo
longobardo (5 febbraio 767): "signum manus Bautonis de Umbrone)
Ancora di origine longobarda potrebbero essere le varie "Docciola"
che troviamo sia nel pistoiese che nell'Alto Reno (cfr. N. Rauty, Storia
di Pistoia, vol. 1, p. 120 - contro questa ipotesi e a favore di una origine
dai liguri cfr. Ibid., p. 12).
Attribuibile ai Longobardi o ai Goti è poi il toponimo Valleriana
nella Vallata del Pescia. Secondo il parere di Ansaldi, riportato da Rauty
nella sua opera sul Regno longobardo e Pistoia (Pistoia 2005, p. 267),
il toponimo Valleriana può essere inteso come 'valle ariana' e
quindi come località abitata da popolazioni di religione ariana
come i goti o i longobardi prima della conversione.
Sempre ai longobardi potranno essere attribuiti i molti toponimi 'settimanici'
presenti nel nostro territorio: "Gli stanziamenti longobardi in Toscana
dovettero essere abbastanza fitti: ciò risulta sia dai ritrovamenti
archeologici sia dalla toponomastica, in particolare dalla frequenza con
cui si trovano composizioni del tipo detto dal Gamillscheg 'settimanico'
(sostantivo latino + personale germanico), come Camaldoli < Campo Maldoli)
sia infine della notevole quantità di germanismi riferibili a questo
strato che compaiono nella lingua letteraria" (A. CASTELLANI, "Gramatica
storica della lingua italiana - introduzione", il Mulino, Bologna,
2001, pp. 70 - 71)
Anche alcuni microtoponimi dell'Appennino pistoiese apparentemente "italiani",come
Fontana del Re e Fonte della Regina (quest'ultimo nei pressi della Collina),
prendono origine da antichi possessi regi longobardi (N. Rauty, op. cit.,
p. 76) ed in passato questa toponomastica era ancora più ricca
(es: 'Silvia Regis' documentata in una pergamena del 1155 localizzabile
sul rilievo montuoso ad est di Stabiazzoni), tanto ricca che Amedeo Benati
è dell'avviso che le molte leggende presenti nelle nostre montagne
relative a Regine (Regina di Silla, Regina di Sucida, etc.) siano tutte
da ricondurre alla presenza in età longobarda di numerosi possedimenti
regi in queste zone (cfr. Il Carrobbio, n. 2 (1976), p. 44). Anche i vari
toponimi del tipo Porcile (ad esempio quello sopra Guzzano) indicano località
di grandi allevamenti longobardi di maiali. Sempre da questi animali (fondamentale
elemento per l'economia longobarda(X)) hanno la loro specificazione il
sambucano Fosso de' Riporcini e Santa Maria de Porcolis, cioè la
medioevale Santa Maria dei Porcellini, localizzabile,forse, a Piederla
di Bargi. Alla stessa categoria dei toponimi solo apparentemente "italiani"
appartiene l'originale toponimo "Bosco della Maria di Fofo"
che nasconde attraverso una forma ipocoristica il germanico "Adolfo"
(Adal + wulf > lupo nobile).
E, sia pure con maggiore perplessità, si segnalano anche i due
toponimi lizzanesi di "La Corona" e "Cà di Guglielmi".
Secondo l'avvocato Filippi (ispiratore e anima della rivista lizzanese
"La Musola") il toponimo "La Corona" sarebbe l'accrescitivo
di gora (longobardo "wora") giustificabile attraverso la presenza
in zona di un vasto acquitrino detto "I Lagoni". Il toponimo
Guglielmi, invece, si riconduce all'antroponimo Guglielmo (da will = volontà
e helm = elmo) (XI).Anche alcuni dei toponimi del tipo "Lagoni"
presenti nell'Alto Reno e nel pistoiese (si tratta di località
che non ospitano alcun lago ma, al più acquitrini) può darsi
possano derivare da un gotico "lagus" col significato di acqua
(al tipo lagus potrebbe ricondursi anche Lagacci anche se ci pare più
ragionevole una origine da gahagi). Secondo lo storico pistoiese del diritto
Luigi Chiappelli (si veda la sua "Storia di Pistoia nell'alto Medioevo",
1929, 1932) Brandeglio, nome della località dove sono le sorgenti
del torrente Vincio, detto appunto di Brandeglio, deriverebbe dalla voce
gotica 'branda', che significava 'fonte'. Secondo altri, ancora, il torrente
e il comune di Pescia paiono invece prendere il nome da una parola longobarda
col significato di fiume / torrente: "La città prese il nome
dal fiume, storpiando alla latina una parola longobarda, che appunto voleva
dire fiume"
Delle numerose "terrae Widingae" pistoiesi sopravvivono ancora
oggi alcuni toponimi quali Casalguidi nei pressi di Serravalle Pistoiese.
La celebre "Porta Franca" (nell'Orsigna Pistoiese), al contrario,
dovrebbe essere un adattamento di un più antico "Porta Gallia"
(M. Panconesi, "Presente e Passato tra gli Appennini", Cento,
2003, p. 119). Lo stesso Panconesi c'informa, tuttavia, di un'altra parola
in uso tra Pracchia e l'Orsigna (e, aggiungiamo noi, in tutto l'Alto Reno)
di origine longobarda: grotto nel senso di "terrazzamenti di terreno
creati sui fianchi delle valli per potere effettuare le coltivazioni"
(Ibid., p. 120). Grotto è usato anche per numerosi toponimi della
zona.
Altri toponimi, oggi dimenticati dai residenti e ricordati solo in documenti
antichi, testimoniano la presenza - in passato - di un ancor più
ricco patrimonio toponomastico di tipo germanico. A titolo di esempio
ricordiamo "Stoccaglieri": "Alla metà del XVIII
secolo, l'Opera di San Giovanni di Valdibure possiede 'un pezzo di terra
lavorativa e querciata in località detta Stoccaglieri'" (AA.VV,
"Dizionario toponomastico delle Valli della Bure", Società
Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1999, p. 176). Vale la pena ricordare
che il vocabolo germanico stok indica il fusto degli alberi, toponimo
quindi perfetto per un pezzo di terra coltivato a quercieto!
Altri tre toponimi di origine germanica menzionati per l'area alto - appenninica
pistoiese da Giancarlo Jori sono Chiappore, Carlatico e Guaime. La forma
"Chiappore", peraltro rintracciabile in altre località
pistoiesi, presenta anche dei derivati come Chiapporato (località
in Comune di Camugnano). Secondo Laura Battistini "i toponimi Chiapporato
in Val Limentra e Chiappore in Val di Bure documentano una via di comunicazione
altomedioevale" (L. Battistini, "Lentula", Editografica
Rastignano, Rastignano, 2000, p. 17) evidentemente di origine longobarda.
E di origine longobarda potrebbero essere diversi percorsi medioevali
alcuni dei quali ancora in uso. Quanto a Carlatico è bene ricordare
come alcuni hanno visto in Carratica (Via di Pistoia) un originale Carlatica.
Per le Valli delle Bure il già ricordato storico pistoiese Natale
Rauty individua come toponimi di origine germanica: Cauccio (con suffisso
germanico -tsch) e Sardigna. E per lo stesso Rauty "anche toponimi
come Corte (curtis) e Chiuso (terra cum clausura) potrebbero riferirsi
a un ordinamento agrario del periodo longobardo" (N. RAUTY in AA.VV.,
"Dizionario toponomastico delle Valli della Bure", Società
Pistoiese di Storia Patria, 1999, p. 26).
A temi germanici, ovviamente, andranno ricondotti alcuni toponimi relativi
ad aggettivi che indicano colori che la lingua italiana, e i dialetti
locali, hanno adottato in età altomedioevale dalle lingue germaniche
(es: i Casoni Bianchi in comune di Granaglione da un tema blank > bianco).
In alcuni casi è invece estremamente difficile l'attribuzione germanica
ai toponimi locali: l'idronomo Faldo (che il Mastrelli considera antico
e assai problematico) è stato da qualcuno collegato con il longobardo
feld (campo), ma una tale attribuzione lascia qualche perplessità
considerato che anche in età medioevale il territorio di Frassignoni
doveva apparire estesamente boscato (una possibile alternativa in ambito
germanico potrebbe rivelarsi in una voce affine al franco "falda"
(piega) usata in italiano anche per indicare le pendici di un monte).
Il germanico feld sopravvive tuttavia in altri interessanti toponimi come
Canfadi nei pressi di Ponte della Venturina (in un documento del '700
il toponimo è riportato nella forma Canfaldo che lascia presumere
un originario campofaldo).
Tra i toponimi di attribuzione incerta,ma difficilmente germanica andrà
attribuito Lascheta (con articolo determinativo agglutinato) a destra
della Bure di Baggio. Per Lascheta, infatti, sarà più ragionevole
cercare l'origine del toponimo in un latino aesc(u)lus (ischio, rovere)
piuttosto che in un germanico *aski (frassino). E alla stessa stregua
andrà considerato l'etimo alla base del nome dei piccoli abitati
di Vinci nei pressi della Forra dei Gai e Vinci lungo la riva sinistra
della Forra del Baco (anziché un germanico Winke sarà più
probabile un latino Vinculum ad indicare il vinchio).
Talvolta sono toponimi di tipo lessicalmente latino a testimoniare una
possibile origine germanica: è il caso, ad esempio, di Luccaiola
nei pressi di Granaglione e di Lucaia nei pressi di Gello di Pescia che
derivano dal latino Lucus (bosco sacro). I lucus erano una caratteristica
di tutti i popoli germani come ben ci testimonia lo storico romano Tacito
nella sua opera "Germania" ("De origine et situ germanorum
liber").
Per concludere riportiamo due presunti toponimi d'origine longobarda e
germanica citati nella "Guida di Porretta e dintorni" di Demetrio
Lorenzini (Zanichelli, Bologna, 1910): Farnè da Fara, termine al
quale il Lorenzini attribuisce il significato di passaggio(p. 21) e Reno
da un gotico Rinno o teutonico Rinnum (pp. 20, 21).
Circa questo toponimo si precisa in primo che luogo che Fara in lingua
longobarda non significa passaggio, ma stirpe (anche se riteniamo legittimo
collegare l'etimo originario del termine longobardo "fara" con
l'idea del movimento rappresentata dalle forme andare / marciare presenti
in lingue come il tedesco (fahren) e l'islandese (ath fara)).In ogni caso
è assai improbabile che il toponimo Farnè derivi dal longobardo
Fara (stirpe), dato che, normalmente, questo vocabolo si mantiene inalterato
nella toponomastica (vedi Fara Novarese o, in Abruzzo, Fara Filiorum Petri).Da
parte nostra propendiamo per un'origine da Farneto, luogo delle farnie,
delle querce.
Del tutto improponibile, poi, l'ipotesi germanica per il nome del fiume
Reno dato che, al contrario, risulta una testimonianza linguistica dei
popoli gallici della penisola; scrive, in proposito, il Rohlfs:
"Il noto gallico renos 'fiume' sopravvive nel nome di alcuni fiumi
e ruscelli nella forma Reno (Lombardia, Veneto, Toscana). Uno di questi
fiumi con nome Reno nasce nelle vicinanze di Pistoia, passa vicino a Bologna,
e sfocia a nord di Ravenna nel mare adriatico" (G. Rohlfs, "Studi
e ricerche su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni Editore, Firenze,
1997, p. 51).
La pur pregevole guida del Lorenzini nel campo della toponomastica è,
peraltro, del tutto inattendibile, proponendo ipotesi a dir poco fantasiose:
Pavana è parola sanscrita (p. 22), Bargi e Baragazza sono nomi
fenici ed etiopi (p. 22), Appennino prende nome dal dio Api - Osiride
(p. 21), e viandare...
Un elenco di altri toponimi longobardi e germanici (trovare un toponimo
di tipo germanico o longobardo non vuole dire necessariamente che lo stesso
toponimo sia un lascito diretto di Longobardi, Goti o Franchi) in Alto
Reno e nel pistoiese cliccando qui
per vedere la toponomastica germanica in area urbana pistoiese clicca
qui
BIZANTINISMI
Un indizio indiretto dell'importanza della presenza nel pistoiese e nell'Alto
Reno delle popolazioni longobarde e germaniche è rappresentato
dalla scarsissima presenza di relitti linguistici e toponomastici greco
- bizantini.
Lessico
Per l'Alto Reno si registrano pochissimi termini di origine greco - bizantina
(quasi tutti importati dal dialetto bolognese come calcedro o ebbio),
in area pistoiese i termini di origine bizantini sono ancora più
rari (uno delle rare eccezioni è "scareggio" col significato
di cosa brutta e ripugnante). Nel caso di termini presenti in area pistoiese
molto spesso si evidenzia un contenuto astratto e / o morale (l'esempio
di scareggio è indicativo in proposito) che ci induce a ritenerli
non tanto l'esito della brevissima dominazione bizantina, ma dell'azione
dei missionari orientali in terra longobarda (XII). Si può anzi
sostenere che nel complesso il numero di parole d'origine greco bizantina
non sia superiore a quello proveniente dalle lingue in uso tra popolazioni
che nulla hanno avuto a che fare con la nostra terra come gli arabi: di
origine araba ad esempio è la parola burgon che a Lizzano in Belvedere
e in Alto Reno in genere designa i castagni vuoti (burgon > arabo '
burg' col significato di 'torre').
Toponomastica
Pochi gli esempi di toponomastica da attribuire ad una presenza greco
- bizantina. Alcuni Castello, Castellina, Castellare, Castiglione che
non possono essere riferiti all'età feudale o a quella comunale
(cfr. N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I, Firenze, Le Monnier,
1988, p. 47) e alcuni "Filetta", "Filettole" (N. RAUTY,
Op. cit., p. 47). Al tipo "Filetta" appartiene un antico toponimo
(oggi scomparso) riportato in un estimo del 1586 nel territorio dell'attuale
Comune di Granaglione (cfr. AA.VV., "Torri: Storia, tradizioni, cultura",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 172). Secondo
Lucia Gai (L. Gai, "Quarrata dalle origini all'età comunali",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1986, p. 22), tuttavia,
anche il toponimo Pilli potrebbe essere d'origine bizantina e collegato
al vocabolo Pylai (porte, valico, passaggio obbligato).
Agiotoponomastica
Come ricordato nel paragrafo dedicato ai Santi pressoché nulla
è attribuibile ai bizantini con l'eccezione, stando alle tradizioni
popolari, della sola Chiesa di San Mamante di Cesarea a Lizzano in Belvedere.
Attribuzione peraltro quantomeno dubbia, non solo perché gli storici
sono giunti alla conclusione che a Lizzano fosse presente una arimannia
longobarda (cfr. R. ZAGNONI, "Il Medioevo nella montagna tosco-bolognese",
Gruppo di studi Alta Val del Reno - Nueter, Porretta Terme, 2004, p. 102),
ma soprattutto perché i i documenti storici attribuiscono la fondazione
di questa chiesa proprio ai Longobardi:
"Dalla lettura di questo documento apprendiamo che San Mamante era
stato costruita dallo stesso Anselmo poco tempo dopo che suo cognato Astolfo,
Re dei Longobardi, gli aveva donato la Massa di Lizzano con i suoi villaggi,
cioè poco dopo la metà del secolo VIII" (A. ANTILOPI
- B. HOMES - R. ZAGNONI, "Il Romanico Appennico", Nueter, Porretta
Terme, 2000, p. 72).
"e proprio lui (Anselmo) aveva costruito quella chiesa, insieme agli
abitanti di quel luogo... l'abate Anselmo produsse il decreto del già
nominato Re Astolfo, contenete l'assegnazione al monastero del sopraddetto
paese e di tutte le sue pertinenze" (brano tratto dal Placito di
Carlo Magno del 29 maggio 801 e pubblicato su "La Musola", n.
1 anno 1967).
Peraltro una delle prime raccolte sulla vita di San Mamante di Cesarea
(e sicuramente la più illustre) risulta opera di un monaco dal
nome piuttosto germanico: Walahfrido Strabone(Walahfrido Strabone: Vita
S. Mammae). Quello Strabone che viene considerato uno dei principali artefici
della poetica altocarolingia e la cui grazia può essere apprezzata
nel passo seguente:
"At mihi adhuc dubitatio nominis huius:
Nam Mammas Mammae, et Mammes Mammetis habetur;
Et Mammes Mammis scriptum liquere priores"
ovvero:
"Mi resta però l'incertezza del suo nome:
si ha infatti Mammas Mammae, e Mammes Mammetis;
mentre i più antichi scrissero Mammes Mammis"
(Walahfrido Strabone in vol. II - Poetae latini aevi Carolini - Monumenta
Germaniae Historica, Berlin, 1884, pp. 275 - 296).
L'intitolazione di una Chiesa ad un santo orientale è un fatto
comune (osiamo dire banale) attribuibile in buona parte alla già
menzionata massiccia presenza di mssionari orientali tra i barbari germanici
(cfr. anche R. ZAGNONI, op. cit., pp. 100 - 101).
Arte e Architettura
Nulla rimane nel campo dell'arte e dell'architettura del dominio bizantino.
Talvolta la tradizione popolare vuole attribuire ai bizantini il piccolo
delubro di Lizzano perché simile alle rotonde bizantine. Le informazioni
di natura storica tuttavia (vedi anche la testimonianza di Anselmo succitata)
dimostrano in maniera indubbia che il cosiddetto "delubro" non
è altro che il battistero della Chiesa di fondazione longobarda,
risalente al VIII secolo (anche il nome "delubro", con il quale
tradizionalmente viene indicato l'edificio, testimonia etimologicamente
il rapporto con il battistero: delubrum > de (particella pleonastica)
+ luo (lavo) + brum (desinenza che indica un bacino come in lavabrum)).
Le somiglianze rintracciate con l'arte bizantina di Ravenna non devono
peraltro stupire dato che i Longobardi, nella loro arte sacra, hanno sempre
cercato di ricreare il linguaggio dei monumenti paleocristiani e bizantini.
Conclusioni sui bizantinismi
I dati raccolti sui bizantinismi ci inducono, così, a rafforzare
la nostra convinzione che la presenza germanico - longobarda è
stata determinante per la cultura pistoiese e dell'Alto Reno mentre quella
bizantina del tutto accidentale.
FONETICA, MORFOLOGIA E SINTASSI
E' assai interessante rilevare che molto spesso i toponimi germanici con
"W" iniziale non subiscono il trattamento di trasformazione
in "GU" tipico delle parole germaniche adottate da popolazioni
italiane. Secondo il Guarnerio (P.E. Guarnerio, "Fonologia Romanza",
Cisalpino Goliardica, Reprint Hoepli, Milano, 1978, § 377) le forme
"V" sono da considerarsi un fenomeno di conservazione dell'antico
suono germanico (W > V). Più incerto il Rohlfs (G. Rohlfs, "Grammatica
Storica della Lingua italiana e dei suoi dialetti - Fonologia", Einaudi,
Torino, 1999, § 168) che, tuttavia, arriva a proporre l'ipotesi per
cui le forme "V" sono un ulteriore evoluzione del "GU"
italico (W > GU > V). A modesto avviso di chi scrive si ritiene
più ragionevole l'ipotesi del Guarnerio non solo perché
l'ipotesi di Rohlfs è basata su un modesto elemento documentale
(in un antico documento Montevarchi è scritto Monteguarchi che,
ad avviso di chi scrive, testimonia semplicemente un tentativo - fallito
- di latinizzare in GU la forma germanica con W), non solo perché
contradittoria col principio dell'economia logica e linguistica ("entia
non sun multiplicanda praeter necessitatem" volendo citare lo scolastico
rasoio di Occam), ma anche perché in Alto Reno e nel pistoiese
si assiste ad evoluzioni dirette di W in B (Wern > Vernio > Bernio).
Inoltre è abbastanza risaputo che la toponomastica è più
conservativa della lingua comune (ad esempio nella località di
Frassignoni, dove da tempo si parla un dialetto pistoiese appenninico,
presenta ancora nella toponomastica tracce dell'antica situazione linguistica
che prevedeva la sonorizzazione di K, T, P e la degiminazione consonantica:
Scovedino anziché Scopettino).
Un altro fenomeno fonetico, presente nel pistoiese e in alcune zone dell'Alto
Reno (es: Treppio), dovuto al superstrato germanico è il passaggio
di "V" in "G" in parole come "golpe", "gomito",
"gomere" o "golo" al posto di "volpe", "vomito",
"vomere" e "volo" (cfr. F.d'Ovidio - W. Meyer Lubke,
"Grammatica Storica della lingua e dei dialetti italiani", Hoepli,
Milano, 2000, p. 110). Alla stessa stregua il montalese "guasto"
(= cane rabbioso) mostra l'interessante fenomeno di ipercorrettismo W
> GU dato che lessicalmente il termine "guasto" non deriva
da una parola germanica, ma dal latino "vastus" (=devastato).
A tale proposito è assai interessante il seguente passo di Gerhard
Rohlfs:
"In qualche parola "v" è stata trattata come la
"w" germanica, a volte sotto l'influsso della parola germanica
di simile conformità, a volte invece perché dai Romani fu
ripresa quella stessa pronuncia che i Germani usavano per le parole romane.
Per la lingua letteraria appartengono a questo tipo guastare (vastare:
germ. wostjan), guado (vadum: germ. wad), guaina (vagina), a cui si aggiungono
ulteriori esempi presi dai dialetti: veneziano, veronese, trentino guida
'vite' (vitem), umbro guerre, romanesco e marchigiano guerro 'verro'"
(G. ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi
dialetti - Fonetica", § 167, Torino, 1999, p. 230).
Sempre in ambito fonetico andrà assegnato ai lasciti germanici
anche il nesso 'sk' (cfr. P. D'ACHILLE, "Breve grammatica storica
dell'italiano", Carocci, Roma, 2003, p. 60). In condizioni normali,
infatti, il nesso sk seguito da vocale palatale ha dato luogo ad una fricativa
prepalatale sorda (piscem > pesce), ma nel caso di voci di origine
germanica il nesso sk si è conservato (skerzon > scherzare).
Il nesso sk germanico peraltro ha assorbito per palatizzazione anche i
nessi st e sl (slahta > schiatta, staffal > Scaffaiolo - cfr. anche
G: ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti
- Fonetica", § 190, Einaudi, Torino, 1999, p. 261).
A tale proposito è sempre il Rohlfs a scrivere che:
"Davanti a vocali palatali sk è diventato sc: cfr. il toscano
scena, scintilla, sciatico, scilla; il napoletano scella; il calabrese
scifu. I prestiti della lingua longobarda tendono, per solito, a conservare
l'antico sk: per esempio schiena, scherzare, schifo (skif); veneziano
schinco; parmigiano schida (skid); lombardo schirpa (corredo); dall'altra
parte il calabrese scirpu 'mobile della casa' (skerpa). Il toscano scheggia
(cfr. il friulano skelsa) sarà un incrocio (sclidia) tra schidia
e un germanico slitan (spaccare)... Dal nesso iniziale scl si è
formato nel toscano ski -cfr. toscano schiuma (skluma < skumula), schiaffare,
schiacciare, schiantare, schiarire" (G. ROHLFS, Op.cit, § 190,
pp. 260 - 261).
In area pistoiese tuttavia capita (per ipercorrettismo) anche il contrario
e cioè che il nesso ST assorba SK anche in parole non germaniche
(stiacciola (non germanico), stiaffo (non germanico), stiantà (non
germanico), stiena (germanico), stiuma (germanico), stioppo (non germanico),
etc.).
Ancora una volta Rohlfs appare illuminante:
"Nel dialetto toscano volgare (prov. Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa,
Grosseto) ski passa con facilità a sti: cfr. stiuma (AIS, 1347),
stiaffo, stioppo, stiavo, stietto, stiatta,; cfr. anche l'antico italiano
stinca 'dorso di montagna' < long. skinka" (Ibid. p. 161)
Peraltro non deve mai essere dimenticato nello studio dei dialetti della
nostra zona d'interesse quanto il linguista Paolo d'Achille scrive per
l'italiano:
"Sebbene spesso riconoscibili anche dal punto di vista fonetico,
per la presenza di foni o sequenze di foni rari o sconosciuti al latino,
almeno in certe posizioni (come il nesso labiovelare sonoro 'gu' all'inizio
di parola, con cui venne adattato il w- germanico), i germanismi si sono
integrati nel sistema fonomorfologico locale" (P. D'ACHILLE, "Breve
grammatica storica dell'italiano", Carocci, Roma, 2003, p. 119).
L'influenza delle lingue germaniche su molti dei dialetti e delle moderne
lingue romanze (compreso l'italiano, il pistoiese e i dialetti altorenani)
è stata così forte peraltro da introdurvi non solo numerosi
vocaboli, e delle varianti fonetiche ma anche delle regole grammaticali;
pensiamo per esempio all'uso degli infiniti preceduti da preposizione
(comincio A parlare, finisco DI mangiare), uso che è sconosciuto
al latino, e che è tipico delle lingue germaniche (inglese to +
inf, tedesco zu + inf.). Ricordiamo brevemente che il futuro italiano
non è la continuazione del futuro latino (ero, amabo ecc.) ma nasce
da una forma perifrastica amare + habeo -> amer-ò;. Evidentemente
la forma esse(re) + habeo -> sar-ò ha faticato ad imporsi, e
per un certo tempo è stata supplita da una forma di fio. D'altra
parte anche in tedesco il futuro si forma con werden (" diventare
") + infinito. E, forse, non è un caso che il futuro del tipo
infinito + habere non si ritrova nel rumeno e nel sardo (ovvero nelle
due lingue romanze che meno hanno subito influssi germanici). Anche il
condizionale risulta una classe verbale sconosciuta al latino e realizzata
perifrasticamente come nelle lingue germaniche. Sempre in tema di possibili
contaminazioni germaniche vale la pena ricordare che la forma medioevale
panromanza per l'interrogazione prevedeva l'anteposizione del verbo al
sintagma nominale soggetto (costruzione linguistica tradizionalmente conosciuta
come "inversione") tipica delle lingue germaniche (vedi l'inglese
"Is Andrew tall?"). Tale forma sopravvive anche nell'area pistoiese
e bolognese (e in generale nell'area gallo - italica / gallo - romanza)
come dimostrano il bolognese "pòsia?" (lett. "posso
io?") e il montalese "che vo' tue?"
Più complessa è la situazione relativa alla negazione. Nelle
zone più settentrionali dell'Alto Reno (i territori comunali di
Porretta Terme e Gaggio Montano e parte di Lizzano in Belvedere, Castel
di Casio e Camugnano)la negazione è sempre del tipo ridondante
paragonabile al francese (je ne sais pas) nel pistoiese e nelle restanti
parti dell'Alto Reno la negazione è invece preferibilmente di tipo
semplice ("mi n al so" a Ponte della Venturina e "i n al
so" a Lagacci di Sambuca Pistoiese), preferibilmente, però,
dato che esiste anche una forma ridondante "mica" (miha) a Pistoia
(es: a Pistoia e a San Mommè, come in altre zone della Toscana,
è uso dire "non lo so mica") e "miga" nelle
zone meridionali dell'Alto Reno. La compresenza di una forma ridondante
anche nella parte meridionale dell'Alto Reno e nel pistoiese è
di estremo interesse dato che accumuna tutto questo territorio a un'area
amplissima dell'europa centrale francofona e germanofona dove la negazione
è sempre del tipo ridondante o postverbale (es: il tedesco "Morgen
muss ich nicht arbeiten"); come è noto la negazione ridondante
può semplificarsi in negazione postverbale (es: il francese "j'
sais pas" o il piemontese "sa fumma m piaz nen" lett. "questa
donna mi piace niente") . Alla luce di questi elementi avanziamo,
così, l'ipotesi che la presenza di una negazione ridondante (detta
anche discontinua) sia dovuta non a un presunto sostrato celtico, ma alla
pressione di lingue germaniche sulle lingue latine secondo un modello
che possiamo semplificare così: a) forma originaria latina in cui
la negazione precede il verbo (odierno portoghese "nao vi nenhum
hominem"); b) contatto con lingue germaniche in cui la negazione
segue il verbo (odierno nerlandese "mòoi is het nìet");
c) realizzazione di una forma intermedia tra quella latina e quella germanica
in cui la negazione precede e segue il verbo (odierno bolognese "an
al so brîsa"). A supporto di questa nostra ipotesi tre elementi:
1) tutto il territorio in cui appare la negazione postverbale e la negazione
ridondante appartiene alla cosiddetta "Area Carlo Magno", ovvero
ai territori del germanico "Sacro Romano Impero"; 2) i territori
che presentano la negazione postverbale e/o la negazione ridondante sono
quelli che maggiormente hanno ospitato popolazioni germaniche; 3) il francese
antico non presentava la ridondanza (es: "il n'a en vous leauté"
in Châtelaine de Vergi). Tenendo conto dell'inerzia delle forme
auliche scritte si può ben immaginare che l'innovazione delle negazione
ridondante risalga al periodo delle dominazioni germaniche.
Il raro utilizzo della negazione ridondante nelle aree centro meridionali
italiane (come attestato da Rohlfs a sud della Toscana il fenomeno assume
un carattere di eccezionalità) può essere giustificato in
parte per importazione dalla Toscana stessa o dal Nord Italia e in parte
da influssi normanni (il gliotta dell'antico napoletano rimanda al goccia
lucchese. Cfr nap. "non ce vede gliotta" con lucch. "'un
ci veggo goccia")
Di estremo interesse appare inoltre il capitolo dedicato al pronome soggetto.
Come è noto in tedesco è obbligatorio esprimere il pronome
soggetto che in italiano viene omesso (tedesco "hast du die Äpfel
gekauft?" contro italiano "hai comprato le mele?"). Anche
qui la nostra area di interessa mostra una analogia con le lingue germaniche
molto forte, in particolare per la zona altorenana (Sambuca Pistoiese
compresa): In buona parte dell'Alto Reno, infatti, il pronome soggetto
nelle forme toniche (io, tu, egli) viene sostituito dalle forme obbligate
(ad esempio il pavanese mi, ti) a cui si affianca l'elemento "i"
in luogo del bolognese "a". Avremo in questo modo il bolognese
"mé a dég" e a Pavana Pistoiese "mì
i diggo". Ma anche l'area pistoiese (in comunanza col fiorentino)
prevede la pronominalizzazione obbligatoria del soggetto sia nella forma
semplice ("quando tu dici") che reduplicata ("te tu dici").
L'uso tendenzialmente obbligatorio del soggetto prenominale è esemplificato
anche nel brano seguente registrato a Firenze e riportato da Luca Lorenzetti
in "L'Italiano contemporaneo" (Carocci, Roma, 2005, p. 92):
"...io prendo e ti telefono, e te, domattina, tu vai alla Pubblica
Istruzione, tu mi porti i' mi' certificato, 'n più tu li dici che
io mi trovo in casa della Maria..."
Come si vede in questa frase la maggior parte dei pronomi risulta omissibile
nell'italiano standard e il loro uso risulta giustificato solo se ammettiamo
l'appartenenza della lingua toscana tra quelle che non possono omettere
il pronome soggetto (inglese, francese,tedesco, dialetti nord - italiani,
etc.). Nell'italiano standard la frase sarebbe infatti resa:
"...prendo e ti telefono, e tu, domattina, vai alla Pubblica Istruzione,
mi porti il mio certificato, in più gli dici che mi trovo in casa
di Maria"
Come si vede, dunque, anche nel pronome soggetto la nostra zona di interesse
partecipa alla comune area franco - germanica (cosiddetta "Area Carlo
Magno") e tale appartenenza non è da considerarsi certo un
fenomeno recente dato che già nei testi toscani antichi il pronome
soggetto tende all'obbligatorietà: "Voi sapete bene che voi
foste figliuolo del cotale padre" (Novellino). Anche nelle "Sessanta
novelle popolari montalesi" del Nerucci (1880) sono molto diffusi
i casi di espansione del sogetto (es: "Ma che vi par'egli?").
Per contro, e per noi ciò costituisce una ulteriore prova che si
tratta di un fenomeno dovuto al contatto con lingue germaniche, in francese
antico i verbi a soggetto espresso, sia pur prevalenti, non risultano
obbligatori (cfr. A. VARVARO, "Linguistica romanza", Liguori
Editore, Napoli, 2001, p. 97)
Un ulteriore percorso di ricerca che meriterebbe un approfondimento è
sicuramente offerto nel campo dei calchi. Come è noto le lingue
neolatine più esposte all'influsso germanico hanno sviluppato anche
delle locuzioni basate sul tedesco; alcune espressioni ladine risultano
lampanti in proposito: ladino 'as far our da la poulvra' (col significato
di "svignarsela") e tedesco 'sich aus dem staub machen'; ladino
'que nun ha ne mans ne peis' (senza senso) e tedesco 'das hat weder hand
noch fuss'. L'ultima espressione è particolarmente interessante
anche per il nostro ambito di ricerca non solo perché ricorda fin
troppo da vicino l'italiano "non ha né capo né coda",
ma anche una sambucana "non ha né testa né gambe".
Ci risulta peraltro che pure la locuzione "far ridere i polli"
(che peraltro appare anch'essa ben distribuita nella penisola italiana)
sia presente anche in terra tedesca ("Da lachen ja die Hühner"),
come pure esiste in tedesco l'equivalente dell'espressione "nella
misura in cui" ("in dem Maße wie"). Peraltro, considerato
che le lingue neolatine hanno incominciato a sviluppare dei calchi dalle
lingue germaniche fin dai tempi più antichi (è il caso del
gotico "ga hlaiba" da cui si è sviluppata, per calco,
la forma panromanza "compagno" che ha sostituito il latino sodales,
ma è anche il caso del "nontiscordardime" che ha corrispondenze
in moltissime lingue europee germaniche e non: tedesco "vergissmeinnicht",
inglese " Forget me not", olandese "Vergeet-mij-nietje",
spagnolo "nomeolvides", etc.), potrebbe essere utile verificare
se certe parole o espressioni d'uso locale possano essere ricondotte al
periodo gotico o longobardo. In altri casi l'ambito di ricerca può
risultare utile solamente dal punto di vista analogico (ovvero per verificare
strategie linguistiche comuni, ma senza alcun rapporto di discendenza
da una all'altra lingua); è il caso, per fare un esempio, dell'accrescimento
per apposizione (stracco morto). Non è possibile invece esprimere
alcun giudizio definito sulla presenza nelle lingue romanze e nelle lingue
germaniche dell'articolo determinativo che risulta assente nel latino
classico. L'ipotesi tuttavia più probabile è che lingue
neolatine abbiano sviluppato l'articolo determinativo per suggestione
del greco (in questa maniera è peraltro possibile spiegare la presenza
dell'articolo determinativo in lingue come l'albanese e il bulgaro). Nel
trattare la questione dell'articolo determinativo non andrà comunque
sottovalutato questo passo della linguista Charmaine Lee: "La formazione
dell'articolo in latino tardo e nelle lingue romanze sembr anche parallela
alla sua comparsa nelle lingue germaniche e risale al VI seolo (C. LEE,
"Linguistica romanza", Carocci, Roma, 2000, p. 102). Nè
andrà sottovalutato questo passo dello storico Muratori: "Per
esempio usando i Longobardi e Franchi, siccome nazioni Germaniche, di
anteporre l’articolo ai nomi, facilmente gl’Italiani abbracciarono
tale usanza, e cominciarono ad adoperare il, la, lo, li, o i, le. Come
ciò avvenisse, il Castelvetro, acuto esaminatore delle etimologie,
fu il primo ad avvertirlo, e ne profittò poi Celso Cittadini. Cioè
dal Latino pronome ille, illa, illi, illae, si formarono gli articoli
della lingua Volgare. Imperciocché solendo il volgo dire illo caballo,
illa hasta, illae feminae, lasciando la prima o l’ultima sillaba
di esso pronome, incominciò per abbreviare il parlare a dire il
cavallo, lo cavallo, la asta, l’asta, le femmine, ec.".
Alla luce di quanto sopra esposto, e a costo di essere ossessivamente
ripetitivi, ci pare opportuno ribadire che nel caso dei prestiti morfo
- sintattici il più delle volte non ci troviamo a che fare con
derivati linguistici specificamente longobardi, ma con derivati linguistici
più in generale germanici (che risultavano già presenti
nelle lingue germaniche antiche e nel cosiddetto Alt - deutsch) che riteniamo
siano stati accolti (più o meno intensamente) dalle popolazioni
latine del Sacro Romano Impero Germanico. A nostro modesto avviso nel
campo della morfo - sintassi il contributo longobardo si deve essere limitato
semplicemente ad una azione di supporto in sede locale di un immenso sforzo
linguistico unificatore portato avanti dalle elite germaniche dello stesso
Sacro Romano Impero (se si trattasse, al contrario, di un lascito linguistico
esclusivamente longobardo non potremmo spiegarci la ragione per cui una
rilevante parte di questi fenomeni risulta assente nella cosiddetta "Longobardia
Minor" - che comprendeva Benevento, Salerno e altri territori del
Sud Italia - che fu governata da Duchi e Principi Longobardi ininterrottamente
dal 570 al 1077).
Sempre all'appartenenza all'Area Carlo Magno andrà attribuito un
fenomeno linguistico ancora ben attestato in area bolognese, ma in forte
regressione in area pistoiese e toscana (e tuttavia ben testimoniato nei
testi toscani medioevali), quello del soggetto fittizio o pleonastico:
Per soggetto fittizio o pleonastico (detto anche espletivo) si intende
la realizzazione di un soggetto privo di contenuto semantico in frasi
impersonali. Tale fenomeno si ritrova infatti nel bolognese "ai arîva
tô pèder", nel francese "il pleut", nel tedesco
"es kommt sein Vater". Per l'area toscana, e in particolare
fiorentina, scrive Giampaolo Salvi dell'Università Eötvös
Loránd di Budapest:
"A differenza che in it. mod., in it. ant. nelle frasi impersonali
e semi-personali era possibile usare il pronome egli (con le sue varianti
e’ ed elli) come soggetto espletivo (o pleonastico). Questo soggetto
non ha un contenuto semantico, nel senso che non individua un referente,
ma serve solo a realizzare la posizione sintattica di soggetto. L’uso
di un soggetto espletivo non era tuttavia obbligatorio e nelle frasi impersonali
e semi-impersonali la posizione soggetto poteva rimanere vuota, esattamente
come nel caso dei pronomi soggetto referenziali, la cui espressione non
era obbligatoria. L’espressione del soggetto espletivo è
tuttavia molto rara nel fiorentino del Duecento; diventa più frequente
a partire dal Trecento, ma resta sostanzialmente caratteristica di uno
stile vicino al parlato" (ludens.elte.hu/~gps/konyv/frase.doc)
Per l'area orientale della Provincia di Pistoia segnaliamo che, nelle
sessanta novelle popolari montalesi di Nerucci (1880), è ancora
possibile trovare esempi di soggetto espletivo (es. "che si fa egli
qui"). Il soggetto fittizio è tuttavia ancora conosciuto ed
usato in alcune aree del pistoiese come Prataccio di Piteglio:
'Sopravvivenza di un soggetto (nella forma "E'" derivata per
elisione da "Ei") per la terza persona di verbi anche impersonali.
Per esempio "E' piove!" In questo caso nella pronuncia non si
percepisce raddoppiamento sintattico della p di piove a causa dell'elisione'
(Samuele Straulino).
Anche il già citato Luca Lorenzetti (professore di glottologia
all'Università di Cassino) registra vari casi di presenza dei soggetti
fittizi nella parlata toscana dei nostri giorni:
'Le differenze di comportamento tra italiano comune e italiano toscano
rispetto ai pronomi vanno oltre: anche l'italiano di Toscana usa pronomi
vuoti, che non si rferiscono a nessun soggetto, ad esempio con i verbi
metereologici e con gli impersonali:"e' piove", "e' mi
pare che basti" (anche qui l'analogia è piuttosto con lingue
come inglese e francese, che hanno soggetto obbligatorio in it's raining,
il pleut, it seems, il semble)' (L. LORENZETTI, "L'italiano contemporaneo",
Carocci, Roma, 2005, p. 93)
Tale situazione ci suggerisce peraltro la necessità di ripercorrere
l'ipotesi del linguista Nocentini che suggeriva, almeno per alcune varietà
romanze fortemente influenzate da varietà germaniche, la definizione
di lingue "romanzo - germaniche". Per chi è interessato
a saperne di più sull'ipotesi del Nocentini si rimanda alla lettura
delle pagine 69 e 70 del suo libro "L'Europa Linguistica" (Le
Monnier, Firenze, 2004) in cui il Nocentini dimostra: a) che il fenomeno
delle vocali turbate (e in particolare di [y]) presente nei dialetti nord
italiani (ma assente del tutto nella nostra area di interesse con la sola
eccezione del toponimo oggi scomparso di "Cà d'Ghiümira"
nei pressi di Badi) è un effetto generale della prosodia che ritroviamo
nel tedesco; 2) che la caduta e la riduzione delle vocali atone è
un fenomeno tipico di Francia, Nord Italia e Catalogna ovvero dei territori
propri della Romània Germanica (il fenomeno di caduta delle vocali
atone è ben rappresentato nei dialetti altorenani ma del tutto
assente in area pistoiese e toscana che tuttavia presenta nei suoi vernacoli
la prostesi vocalica (arricordare, arcipresso, affortunato, etc.) che
può essere considerato un fenomeno normalmente correlato alla caduta
delle vocali ed assunto in terra toscana proprio per effetto della comune
appartenenza della Toscana stessa all'Area Carlo Magno).
Non andrà peraltro dimenticato che lo sforzo di unità linguistica
che ha determinato la nascita della "Area Carlo Magno" s'inquadra
in un movimento generale voluto direttamente dall'Imperatore franco di
unificazione della scrittura e della cultura nel Sacro Romano Impero.
Di sicura volontà imperiale sono ad esempio:
a) la riforma della scrittura con codificazione della grafia (la minuscola
carolina oggi conosciuta nei computer anche come "Times New Roman");
b) invenzione dei moderni segni di interpunzione tra i quali il punto
interrogativo (?);
c) l'applicazione del Canone Romano e della liturgia delle ore per tutto
il clero, l'obbligo di saper leggere e scrivere in latino, l'adozione
della regola benedettina in tutti i monasteri del Sacro Romano Impero;
d) ammissione della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio
(Filioque). Questa innovazione avrà come conseuenza ultima la separazione
della Chiesa Romana d'Occidente (Cattolica) da quella d'Oriente (Ortodossa);
e) Uniformità del metodo di studio teologico, basato su tre punti:
lettura della Bibbia, studio dei Padri e dei filosofi antichi, applicazione
delle arti liberali, in special modo il trivium: dialettica, retorica,
grammatica. Questa metodologia segnerà per lungo tempo lo sviluppo
della teologia medievale.
E' molto probabile che la seconda linea linguistica italiana
(la linea Roma - Ancona) sia proprio la linea di demarcazione tra una
"Romania Germanica" (che rientra nell'Area Carlo Magno) e una
"Romania Mediterranea" (che mantiene caratteri linguistici arcaici
latini ed ellenici)
Per saperne di più clicca qui
Per concludere questa riflessione sull'Area Carlo Magno
andranno, tuttavia, segnalati un paio di paradossi relativi alla presenza
del neutro e all'ordine dlele frasi. Paradossi che mostrano la moderna
lingua tedesca sotto questi aspetti più simile al latino di quanto
non lo siano le lingue romanze.
In relazione al primo paradosso si osserva stranamente come la comune
appartenenza delle lingue germaniche e delle lingue romanzo occidentali
(toscano incluso) alla comune area Carlo Magno non ha avuto alcun esito
sulla conservazione del genere neutro accanto al genere maschile e femminile.
Infatti mentre il germanico e il latino conoscevano il neutro, il femminile
e il maschile, e mentre il tedesco conserva questa tripartizione, le lingue
romanze occidentali l'hanno abbandonata a favore di una bipartizione maschile
/ femminile. Probabilmente l'assenza del genere neutro andrà così
addebitata ad un fenomeno linguistico già in essere in età
imperiale (e infatti possiamo leggere nella "Cena Trimalchionis"
(periodo di Nerone): "vinus mihi in cerebrum abiit"). In ogni
caso, nella nostra zona di interesse, sopravvive una classe ristretta
di forme neutre in gran parte comune con l'italiano: ossa / osso , uova
/ uovo, braccio / braccia, etc. Tuttavia risultano presenti alcune forme
di neutro non riconducibili all'italiano: "le pera" nella Valle
della Lima (citato in D. MUCCI MAGRINI, "Quando i necci erano il
pane", Pistoia, 2002, p. 27), "le bracce", "le corne",
"le dide", "ll'ove", "ll'osse" a Sambuca
Pistoiese (citate in G. ROHLFS, "Grammatica storica della lingua
italiana e dei suoi dialetti - Morfologia", Torino, 1998, §
369, p. 38). Sempre nel genere neutro sopravvive, sia pure a livello di
toponomastica (vedi Campori presso Torri o Campore frazione di Marliana),
il tipo "le corpora" (ROHLFS, Idem, § 370, pp. 39 ss).
A differenza delle altre forme di neutro è ipotizzabile, per questa
particolare manifestazione del neutro, un qualche influsso (INDIRETTO)
di popolazioni germaniche, dato che nel "Codice diplomatico longobardo"
si riscontra la presenza di campora, tectora, ortoras e in altri documenti
perfino delle forme waldora, morgincapora, burgora, segno che i longobardi
usavano con una relativa frequenza (nel loro latino) questa forma.
Per quanto attiene il secondo paradosso ci pare opportuno rilevare come
le lingue romanze nell'ordine delle frasi seguano un modello SVO (Soggetto
- Verbo - Oggetto) in continuità con il greco, le lingue slave
e la quasi totalità delle lingue germaniche, mentre il tedesco
moderno si mostra in continuità con il latino classico che preferisce
un ordine SOV (Soggetto - Oggetto - Verbo). E' possibile, a nostro modesto
avviso, che questo secondo paradosso possa essere spiegato in questa maniera:
a) per le lingue romanze influsso del greco ecclesiastico combinato con
con l'influsso delle lingue germaniche barbariche e, in piccola parte,
di popolazioni slave; b) per il moderno tedesco influsso viceversa del
latino classico come lingua di cultura europea.
FORMAZIONE DELLE PAROLE
Suffissi germanici sopravissuti in questi dialetti sono -ardo, -aldo (rispettivamente
dal germanico -hart e dal germanico -wald), -engo, -iska diffusi in toponimi
(Pellegrinesca), nomi di persona (Ermengarda, Edgardo, Gerardo), nomi
comuni (ghenga = combriccola, paterlenga / petrolinga (XIII) = frutto
della rosa canina). I suffissi -ardo e -aldo, per influsso mediato del
francese sull'italiano e dell'italiano sui dialetti, hanno trovato nuova
linfa diventando relativamente produttivi (es: "bastardo" dall'antico
francese "bastard").I suffissi in -iska e in -enga costituiscono
invece una classe assai limitata e fossilizzata di termini. L'unico esempio
che possiamo menzionare, fra quelli a nostra conoscenza, di neologismo
formato con un suffisso germanico in -inga nei dialetti pistoiesi ed altorenani
è il pistoiese cilinga (= gomma da masticare, cingomma). A livello
di suffissazione (o pseudosuffissazione) non andrà inoltre dimenticata
la particolare presenza di fome "-ecco" (germanico -ikan) tutte
derivabili da termini germanici (becco, stecco, stocco, berlocca, bernecche).
L'attribuzione al germanico dei suffissi del tipo -otto (particolarmente
diffuso nella nostra area di interesse come dimostrano le forme: calzinotto,
candelotto, ciliegiotto, etc.), -atto, -etto - assenti in latino - è
comunque dubbia anche se il Gamillscheg (in Romania Germanica) è
di questo parere. Altro suffisso di dubbia attribuzione ma germanico sia
per Gamillscheg che per Bertoni è -iero (iere). Tra i prefissi
germanici risulta, invece, particolarmente produttivo il prefisso "ber"
(vedi berlicche, berlingozzo, berlocca, etc.) Altro prefisso di origine
germanica è mis. Quest'ultimo prefisso rappresenta, peraltro un'altra
traccia dell'appartenenza della nostra zona di interesse all'Area Carlo
Magno: il prefisso "mis", infatti, deriva dal franco missi (lo
stesso del tedesco misfallen, missachten, missmut) che è passato
ai vari dialetti italiani all'epoca dell'ascendente politico culturale
franco. Questo prefisso, che può esprimere il concetto di cattivo
o contrario, è piuttosto produttivo e ci ha offerto, ad esempio
nella lingua italiana, vocaboli come miscredente, misfatto, misconoscere,
misavveduto, etc. Pur essendo presente, più o meno modificato,
anche in dialetti meridionali il prefisso mis- risulta particolarmente
vivo nel Nord e Centro Italia per poi scemare nel Sud della penisola italica
dove è preferito un suffisso apparentemente simile ma derivato
dal latino minus.
Come già osservato in precedenza alcune parole sono state particolarmente
produttive e da queste derivano molti derivati (tipo brehhan), ma attualmente
la possibilità di realizzare nuovi termini da radici longobarde
si è ridotta a livelli minimi e spesso si tratta più di
riscoperte che non di creazioni(ad esempio il cosiddetto neologismo "intrologarsi",
che secondo Raffaella Zuccari sarebbe stato "inventato" da Francesco
Guccini per la sua versione in dialetto pavanese della Casina di Plauto,
è voce toscana e pistoiese col siginificato di sporcarsi, imbrattarsi).
A questo punto non andrà dimenticato un interessante commento della
professoressa Haendl dell'Università di Genova riferito alla lingua
nazionale italiana, ma valido anche per i dialetti della nostra area di
interesse:
"Anche dalle poche parole qui citate appare chiaro che il contributo
linguistico dato dalle invasioni germaniche all'italiano fu importante
e decisivo: molte infatti delle parole che noi usiamo quotidianamente
e delle quali non sapremmo più fare a meno, sono germaniche. Altrettanto
importante però è notare che nel momento in cui furono accolte
la maggior parte di esse non era affatto necessaria; senza dubbio la situazione
culturale aveva creato le premesse indispensabili per l'ingresso di questi
termini, ma la loro adozione risponde non a necessità concrete,
ma a esigenze di tipo espressivo. In altre parole furono adottate perché
sentite più efficaci e rispondenti ad esprimere quella diversa
realtà storica nella quale i Romani erano venuti a trovarsi con
le invasioni germaniche. Molto spesso di fronte al corrispondente termine
latino la parola germanica ha ancora oggi un qualcosa di "esagerato"
e talvolta di "volgare" che sembra proprio voler mettere in
luce certi comportamenti che senza dubbio ai Romani parevano sconvenienti:
v. per es. bere e trincare, bagnarsi e sguazzare, dormire e russare, prendere
e arraffare, ecc. La stessa sfumatura spregiativa o comunque espressiva
si riscontra spesso anche in numerosi aggettivi italiani formati con i
suffissi germanici -aldo (spavaldo, ribaldo, truffald[ino], ecc.), -esco
(oggi in realtà usato molto frequentemente come semplice suffisso
di derivazione aggettivale: pittoresco, trecentesco, temporalesco, ecc.;
una sfumatura peggiorativa si può notare ancora in animalesco rispetto
ad animale, in militaresco rispetto a militare, ecc.), -ingo (raro, v.
ramingo, solingo, guardingo, casalingo, ecc.), -ardo (beffardo, bugiardo,
infingardo, dinamitardo, ecc.). Altre volte invece alcuni termini sembrano
sottintendere una certa simpatia da parte dei Romani: v. per es. schietto,
baldo, franco, o almeno un apprezzamento che a noi può anche apparire
strano, verso determinate usanze. Ci stupisce ad esempio che molti dei
nomi di colore che usiamo comunemente siano germanici: bianco, biavo (oggi
caduto in disuso e sostituito da blu che, filtrato attraverso il francese,
è pur sempre germanico), bruno, biondo, grigio. È probabile
che si siano diffusi con il commercio delle stoffe, infatti nel campo
dell'abbigliamento in genere l'influenza germanica fu notevole (v. i già
citati termini guanto, scarpa, feltro, cotta, fazzoletto, nastro, ecc.).
Grande successo ebbero anche i nomi di persona germanici; alcuni sono
ancora oggi comunissimi: Corrado, Guglielmo, Ruggero, Roberto, Guido,
Carlo, Federico, ecc., altri hanno dato origine a cognomi altrettanto
diffusi: Alberti, Berardi, Nardi, Ruggeri, Uberti, Corradi, Rolandini,
ecc."
GORGIA TOSCANA
Per "gorgia toscana" si intende quel singolare fenomeno per
cui le consonanti sorde P, T, K (la c dura di casa) vengono spirantizzate
(es: fiho per fico e ditho per dito).
Alcuni studiosi hanno supposto una origine germanica anche per la gorgia
toscana (es: Lucia Clark in "The Tuscan Gorgia, Dialects and Regional
Identity: a Survey"). All'origine di tale supposizione è la
relativa somiglianza tra la ch germanica (cfr. "machen") e la
gorgia toscana.
Tuttavia andrà considerato che il fenomeno non risulta presente
in aree fortemente germanizzate come il Nord - Italia o, per rimanere
nell'area di nostro interesse, l'Alto Reno.
E', pertanto, assai più probabile che la motivazione della gorgia
toscana sia da imputarsi ad una reazione nei confronti della sonorizzazione
delle sorde intervocaliche proveniente dal Nord Italia. Anche se non andrà
dimenticato questo importante passo del già citato Rohlfs:
"[Per la gorgia toscana] converrà guardare con qualche dubbio
la tesi dell'eredità di un sostrato pre-latino. Noi riteniamo perciò
essere più verosimile che queste aspirazioni consonantiche abbiano
una origine neolatina piuttosto recente ed indipendente dall'etrusco.
Si potranno piuttosto mettere a confronto con il risultato della mutazione
consonantica dell'antico alto - tedesco (k > ch, p > pf, t >
ts): saka > ted. Sache, cupa > Kopf, kratton > kratzen)"
(G. ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi
dialetti - fonetica", Torino, Einaudi, 1999, § 196, p. 268).
Dunque non vi è alcuna certezza scientifica che possa testimoniare
una origine germanica diretta della gorgia toscana, ma solo qualche labile
sospetto. Ben diverso è, tuttavia, l'esito della riflessione se
ragioniamo in termini di tipologia linguistica.
Abbiamo infatti sostenuto, alla luce delle acquisizioni scientifiche più
affidabili, che la gorgia toscana è da imputare ad una reazione
nei confronti della sonorizzazione delle sorde intervocaliche proveniente
dal Nord Italia, sonorizzazione delle sorde intervocaliche da imputarsi
proprio alle elite longobarde (e più in generale germaniche) presenti
in Toscana:
"La bizzarra e sconcertante contraddizione che notiamo nelle coppie
fuoco e luogo, prato e strada, capo e riva, cacio e fagiano, sasso e coscia,
orecchio e coniglio, sembra ripetersi nel campo del vocalismo, dove abbiamo
piede e bene, pietra e lepre, fiele e mele (toscano popolare), nuovo e
novo, fuoco e foho, vietare e venire, vuotare e morire, viengo (toscano
popolare) e dente, cuomo (Arezzo) e porco. Per questa irregolarità
o varietà mi piace citare: 'Anche questa, COME LA LENIZIONE CONSONANTICA,
è ai miei occhi, un'innovazione penetrata in Toscana dalla Lombardia
sempre per la via di Lucca; e sempre - come suol avvenire - attraverso
gli strati superiori, più colti: la classe clerico - notarile,
e poi anche mercantile ... Come questa anche la dittongazione incondizionata
(cioè non legata a fenomeni metafonici) va, io credo, veduta come
un apporto della conquista carolingia' (Tem. Franceschi). 'Pel tramite
del clero, indubbiamente orientato - attraverso Lucca, capoluogo politico
e quindi anche ecclesiastico - verso i grandi centri religiosi del settentrione,
penetrano in Toscana, in epoca longobarda, innovazioni fonetiche settentrionali:
ché la pronuncia diffusa dalla nuova capitale Pavia, la pronuncia
lombarda, non poteva non apparire a quei provinciali come la più
distinta' (Tem. Franceschi)" (G. ROHLFS, "Studi e ricerche su
lingua e dialetti d'Italia", Sansoni, Firenze, 1997, pp. 159 - 160).
Pertanto la particolare situazione linguistica della Toscana (e quindi
del pistoiese) relativa al dittongamento incondizionato, alla parziale
sonorizzazione di K, T, P e alla gorgia toscana sono da attribuire alla
partecipazione della Toscana medesima (e quindi del pistoiese) alla comune
Area Carlo Magno già menzionata nel paragrafo dedicato alla fonetica,
alla morfologia e alla sintassi. Sia con minore sicurezza (la cosiddetta
"teoria delle onde" di Schmidt potrebbe essere più che
sufficente) avanziamo, infine, l'ipotesi che anche determinati suffissi,
di tipo settentrionale, presenti in Toscana sono stati adottati per una
'moda' voluta dalle elite germaniche: "Andrà quindi considerata
d'origine padana la variante produttiva -uzzo del suffisso -uccio, dal
lat. -uceus (e così pue la variante arcaica -ozzo di -occio, da
un tardo lat. volg. *-oceus). Influssi meridionali sarebbero, in questo
caso, molto improbabili. Una riprova: nel lucchese, dialetto in cui l'elemento
settentrionale è più vistosamente rappresentato che in fiorentino,
si ha anche -izzo (-icius, -iceus) o meglio -izzoro (combinazione di -izzo
con -olo, in cui -l- s'è rotacizzata): omizzoro, donnizora, donnizzorino
(Nieri, Appendice al Vo. lucch., p. 284), linguizzora, pedizzoro, manizzora,
codizzoro (ibi., p. 285)" (A. CASTELLANI, "Grammatica storica
della lingua italiana - Introduzione", il Mulino, Bologna, 2001,
p. 140). Nel comune di San Marcello Pistoiese abbiamo la località
di Campotizzoro (Campo + tizzo + suffisso -izzoro).
Gorgia Toscana ed ipotesi etrusca: per sapere qualcosa sulla ipotesi "etrusca"
clicca qui
Incisione al "Tribunale" di Ronco di Serra (PT)
LE MUMMIE
Si tratta delle tradizionali maschere di pietra presenti nei Comuni di
Lizzano in Belvedere, Sambuca Pistoiese, Granaglione. La loro presenza
è stata attribuita da molti a una sopravvivenza del macabro rituale
di celti e longobardi di esporre fuori dalla propria capanna le teste
dei nemici uccisi. A favore dell'ipotesi longobarda è il fatto
che le Chiese della Città e della Provincia di Pistoia (che furono
germanizzate dai longobardi) presentano un identico fenomeno (peraltro
presente anche in molte chiese lucchesi e in aree del pisano come, ad
esempio, i muri perimetrali del cimitero di Piazza dei miracoli a Pisa),
mentre risulta assente nel bolognese (terra gallica). A Pistoia, anzi,
sopravvivono alcuni esempio di mummia direttamente collegati ad eventi
della vita civile e della realtà bellica dei pistoiesi:
Le teste di moro poste sulla facciata del Municipio di Pistoia e lungo
il cosiddetto "Canto de' Rossi" infatti rappresentano il Re
Musetto II di Maiorca ucciso dal condottiero pisotiese Grandonio dei Ghisilieri,
mentre la testa del traditore Tedici è posta sul portale della
Chiesa di Sant'Andrea
"Comunque sulla facciata non mancano insegne dell'epoca medioevale,
quali la testa di marmo nero sormontata da una mazza in ferro che una
leggenda popolare identifica con l'effige del traditore della città
Filippo Tedici, anche se presumibilmente si tratta del ritratto di Re
Musetto II di Maiorca, ucciso dal capitano pistoiese Grandonio dei Ghisilieri
durante la conquista delle Baleari nel XII secolo. La testa del Tedici
si trova invece sul portale di Sant'Andrea e la tradizione vuole che sia
nera perchè in segno di spregio vi venivano spente le torce prima
di entrare in chiesa."
(Dal sito http://www.comune.pistoia.it/conoscere/scoperta/scoperta_10.htm)
"Dopo di che Filippo Tedici fu cacciato e, tentando di rientrare
in armi nel territorio pistoiese, fu contrato ed ucciso presso il ponte
sulla Lima, sotto Popiglio. La sua testa, spiccata dal busto, fu portata
in città, riprodotta in marmo e posta su alcuni angoli pubblici
a feroce monito contro i traditori" (A. CIPRIANI, "Breve storia
di Pistoia", Pacini Editori, Pisa, 2004, p. 50).
La mummia del moro, in qualche modo, ci ricorda l'incipit dello "Orlando"
di Virginia Woolf:
"Egli - poiché dubbio non v'era sul suo sesso, per quanto
la foggia di quei tempi lo dissimulasse - stava prendendo a piattonate
la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi del soffitto. Aveva
essa la tinta d'una vecchia palla di cuoio; e quasi ne avrebbe avuto la
forma, se non fosse stato per il cavo delle guance, e i capelli duri e
aridi come barbe di una noce di cocco. Il padre di Orlando, o forse il
nonno, l'aveva spiccata dal busto del gigantesco infedele che gli s'era
parato davanti improvviso al chiaro di luna, nelle barbare distese africane,
e ora essa oscillava dolcemente, incessantemente, alla brezza perenne
che soffiava per le logge in cima alla vasta dimora del signore che aveva
decapitato l'infedele. I padri di Orlando avevano cavalcato per i campi
diasfodeli, e per i campi sassosi, e per campi bagnati da acque straniere,
e da più di un busto avevano spiccato più d'una testa di
vario colore, e le avevano portate seco onde appenderle alle travi dei
loro soffitti" (V. WOOLF, "Orlando", Mondadori, Milano,
2004, p. 7)
Lo spirito dei pistoiesi era, quindi, ancora fortemente collegato all'ideale
guerresco dei popoli germanici così ben esemplificato nel romanzo
di Virginia Woolf.
Se tutto questo non dovesse bastare ricorderemo, infine, che il motivo
ornamentale delle teste tagliate era proprio anche dei Goti:
"Particolari motivi ornamentali che, come si accennava poco fa, furono
adottati dai Goti, e in maniera particolare dagli Ostrogoti, furono le
têtes coupés (teste tagliate) e l'aquila. Il tema della testa,
molto stilizzata nell'arte gota, verrà ripreso in quella franca
e successivamente nell'arte carolingia e in quella romanica" (S.
ROVAGNATI, "I Goti", Xenia, Milano, 2002, p. 80).
IL CULTO DEGLI ALBERI
E' risaputo che per le antiche popolazioni germaniche il culto degli alberi
era un culto fondamentale. Noto, ad esempio, è il caso del frassino
Ygadrasil la cui morte avrebbe segnato la fine del mondo. Per quanto riguarda
i Longobardi è bene ricordare che la "Vita Barbati episcopi
beneventani" menziona un rito longobardo legato a un "albero
sacro" (cfr. S. ROVAGNATI, "I Longobardi", Xenia, Milano,
2003, p. 101). Anche in Alto Reno troviamo la sopravvivenza del culto
degli alberi, sia per assimilazione di tradizioni italiche che per 'atto
autonomo':
- A Granaglione, fino alla metà dell'ottocento, le promesse di
matrimonio erano fatte all'ombra di un gigantesco castagno (Nueter, n.
1, anno I, 1975, p. 17);
- A Pianaccio e Monte Acuto sopravvive la tradizionale "fasgela"
(La Musola, anno XXIV, 1990, n. 47, p. 108): un piccolo tronco rigorosamente
di legno chiaro (preferibilmente faggio) veniva dato alle fiamme durante
la notte di Natale nei pressi della scalinata della chiesa (a questa tradizione
si accompagnano in Alto Reno anche i più tradizionali ceppi di
natale e i falò);
- Tra Granaglione, Castel di Casio, Lizzano in Belvedere, Sambuca Pistoiese,
Piteglio, Pistoia stessa era diffusa l'antica tradizione del "bosso"
(detto anche "fuori il verde", "verde in bocca" o
"fiore verdo") inteso come giocoso impegno pasquale che aveva
come protagonista un rametto di bosso;
- Negli stessi comuni era diffuso anche il tradizionale 'Maggio' che Guccini
(e non solo Guccini) riconosce essere la sopravvivenza del culto della
terra e degli alberi proveniente da una antichissima Europa "nordica
o meditterranea" (Nueter, 1978, n. 2, p. 17). Anche nella manifestazione
del canto ricorrono delle strane analogie tra la tradizione locale e quella
presente in regioni germanofone:
MAGGIO A PITEGLIO MAGGIO IN SVEZIA
"Nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, i giovanotti recavano
in dono rami fioriti alle case e percorrevano il paese cantando il 'Maggio'
che prevedeva peraltro preghiere per la prosperità delle galline
e delle famiglie in genere. "Fermatisi davanti alla casa, veniva
ripetuto il canto del maggio sino a quando il padrone o la padrona non
fossero scesi ad aprire, ed avessero riposto nel paniere dello 'ovaio'
(colui che raccoglieva le uova) la coppia di uova richiesta. A quel punto,
l'allegra compagnia ringraziava e salutava, lasciando sulla rostra della
porta un ramo fiorito'"
( G. MUCCI, "Fattecosiecche...: Leggende, paure e riti nel paese
di Piteglio", Provincia di Pistoia, Pistoia, 1999, p. 46)
"Prima che arrivasse l'alba, alcuni di quei giovani si recavano nei
boschi per tagliare 'l'albero del maggio': un alberello che, addobbato
con nastri rossi, veniva innalzato sulla piazza del paese" (Ibid.,
p. 47) "Alla vigilia del calendimaggio, in alcune località
della Svezia, i ragazzi si aggirano per le strade, recando rami freschi
di betulla, con o sena foglie. Guidati dal violinista locale, vanno di
casa in casa. cantando le canzoni del maggio, che consistono per lo più
in preghiere perché il tempo sia buono, il raccolto abbondante
e tutti siano felici nell'anima e nel corpo. Uno di questi ragazzi porta
un cestinoper raccogliere le offerte di cibo. Se vengono accolti bene,
piantano un rametto fronzuto nel tetto, sopra la porta di casa" (J.
G. FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999,
p. 152 - 153)
"Il primo di maggio in Svezia, si usava innalzare nel villaggio un
alto abete con nastri, e, a suon di musica, la gente vi ballava allegramente
intorno" (Ibid., p. 154)
MAGGIO A PITEGLIO MAGGIO IN ALSAZIA
"Se però una famiglia non avesse gradito il 'cantar maggio'
e nessun componente di essa si fosse svegliato [e fatto l'offerta di uova
richiestsa], una quarta 'stanzetta' (strofa) era così riproposta:
'Se due uova non ci date
pregherem per le galline
che da volpi e da faine
vi sian tutte divorate
se due uova non ci date...'"
( G. MUCCI, "Fattecosiecche...: Leggende, paure e riti nel paese
di Piteglio", Provincia di Pistoia, Pistoia, 1999, p. 46) "Se
qualcuno rifiuta di offrire il dono, mentre cantano augurano a quell'avaraccio,
che la faina divori le galline, la vita non dia grappoli, né cresca
il suo grano; si ritiene che, per quell'anno, i prodotti della terra dipendano
dai doni che si offrono a questi canterini di maggio" (J. G. FRAZER,
"Il ramo d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999, p. 156)
Anche nel Maggio drammatico di Granaglione è presente
traccia dei riti arbori:
"Alto e Grado venne tosto
nel deserto e non tardare
quel gran santo a sotterrare
che in un faggio sta nascosto"
(cfr. AA.VV.,"Il Mondo di Granaglione", Tamari Editore, Bologna,
1977, p. 286).
Durante la tradizione del maggio era poi usuale piantare l'albero del
maggio (detto il "majo" a Montale e in molte altre zone) davanti
alla casa delle donne che si voleva sposare. Questa tradizione è
peraltro testimoniata in una poesia di Lorenzo il Magnifico:
"Se tu vuoi appiccare un majo
a qualcuna che tu ami
Quanto è bello e fresco e gajo
appiccar un pin cò rami"
(Lorenzo il Magnifico, Canzoniere 26,4).
E' peraltro possibile che la tradizione del Maggio sia il frutto di una
contaminazione di tradizioni germaniche con l'antica festa romana della
"Floralia" che si celebrava anch'essa "tra la fine dell'aprile
e i primi di maggio" (F. CARDINI, "Breve storia di Firenze",
Pacini editore, Pisa, 2003, p. 18)
- Grande importanza hanno i rami del pungitopo e del ginepro per festività
come San Paolo (17 gennaio) e Natale (ad esempio il fogarone di Treppio).
Tra le tradizioni natalizie quella del ciocco di natale, pur diffusa in
tutta Europa, mostra interessante similitudine con quella della Germania
centrale.
CIOCCO DI NATALE A GAGGIO MONTANO CIOCCO DI NATALE NELLA
GERMANIA CENTRALE
"Una pratica comune a tutta l'Europa era quella del ciocco natalizio.
Un ceppo che si poneva a bruciare nel camino e che doveva durare almeno
sino all'Epifania [12 giorni]...
Il ciocco poi valeva anche come amuleto protettivo per tutto l'anno seguente.
Esso avrebbe dovuto consumarsi lentamente, senza mai spegnersi del tutto,
giacché ciò che ne restava garantiva protezione e benedizione,
ed un nuovo ciocco sarebbe stato acceso soltanto con un pezzo dell'antico.
A Gaggio la tradizione consigliava di conservare i carboni del ceppo di
Natale sino a Capodanno: il primo giorno del nuovo anno tali carboni,
sparsi nei campi, avrebbero portato 'gran bene'"
(M. CECCHELLI, "Una castagna sotto il guanciale", Gente di Gaggio,
Gaggio Montano, 2001, p. 34-36) "Che il ceppo natalizio non fosse
che l'equivalente invernale del falò di mezz'estate, acceso dentro
casa anziché all'aperto per via del tempo freddo e inclemente,
fu sottolineato molti anni fa dal ricercatore inglese John Brand...
Fino a verso la metà del XIX secolo, l'antico rito del ceppo di
Natale sopravvisse in alcune zone della Germania centrale. Nelle valli
del Sieg e del Lahn, per esempio, il Ceppo di Natale, costituito da un
pesante blocco di quercia, veniva incastrato nel piano del focolare dove,
pur se esposto al fuoco, non bastava un anno per ridurlo in cenere. Quando,
l'anno successivo, lo si sostituiva con un blocco nuovo, i resti di quello
vecchio venivano ridotti in polvere da spargere sui campi durante le dodici
notti, fino all'Epifania, per stimolare la crescita dei raccolti"
(J. G. FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton Editore, Roma,
1999, p. 702)
Il parroco Fumagalli ricorda questa tradizione nella Valle
del Randaragna:
"LA FESTA DELLE PALME: Più che celebrare l'ingresso trionfale
di Gesù in Gerusalemme, accolto dalla folla con i rami di palma
e al grido: "Osanna al Figlio di Davide, benedetto Colui che viene
nel nome del Signore", la comunità boscaiola, pur avendo presente
questo fatto, sembra celebrare un altro avvenimento dell'Antico Testamento.
Più che festa delle Palme è festa dell'Ulivo. Noi sappiamo
che l'ulivo è simbolo di pace e di vita. "Avendo noi aspettato
altri sette giorni Noè mandò fuori dall'arca la colomba
la quale ritornò a lui verso sera portando nel becco un ramo di
ulivo con verdi foglie. E Noè capì...". La presenza
della gente a questa festa, ancor oggi è più massiccia che
non il giorno di Pasqua. Anticamente poi in questo giorno, come attesta
l'elenco ricordato nel 1718, oltre che messa cantata e il 'Passio solenne
ad usum religionis', il predicatore parlava del Purgatorio. Questo accostamento
con la festa dell'Ulivo non è puramente gratuito, ma ha un suo
preciso significato: la morte è il passaggio ad una altra vita;
le Anime del Purgatorio un giorno potranno godere della nuova vita"
(P.A. CIUCCI- D. FUMAGALLI, "Una Valle da scoprire. Valle del Randaragna
dell'Alta Val del Reno, Bologna, 1981, p. 210).
Una citazione, oltreché singolare, di enorme interesse perché
ci consente di rintracciare nella memoria collettiva di questa festività
non solo la sopravvivenza del rito arboreo germanico - longobardo (rappresentato
dall'ulivo), ma anche la sopravvivenza del rituale della "pertica"
(rappresentato dalla colomba):
"Nella cultura longobarda le perrticae erano praticamente lunghe
aste sormontate dalla riproduzione di una colomba: quando una persona
moriva lontano da casa oppure risultava dispersa in battaglia e quindi
non si poteva celebrare il funerale, i famigliari al posto della sepoltura
piantavano nel terreno una di queste aste con la colomba, orientata verso
il punto in cui si pensava fosse morto il proprio congiunto" (S.
ROVAGNATI, I Longobardi, Xenia, Milano, 2003, p. 102).
"Si quis enim in aliquam partem aut in bello aut quomodocumque extintus
fuisset, consanquinei eius intra sepulcra sua perticam figebant, in cuius
summitate columbum ex ligno factam ponebant, quae illuc versa esset ubi
illorum dilectus obisset" (P. DIACONO, "Historia Longobardorum",
V, 34).
Del resto anche i luoghi di culto cristiani nascondono appena una più
antica realtà sacra di tipo arboreo celtica o germanica (es: la
Madonna dell'Acero e la Madonna del Faggio). Anche il cosiddetto "Miracolo
della Quercia" all'origine della processione del Venerdì Santo
a Quarrata (P. DE SIMONIS - C. ROSATI, "Atlante delle tradizioni
popolari nel pistoiese", M&M Artout, Pistoia, 2000, p. 78)sembra
fatto apposta per esorcizzare e cristianizzare antichi riti germanici
di adorazione degli alberi (in tema di coincidenze segnaliamo che per
Frazer il culto di Baldr / Baldur e quello della quercia tendono ad identificarsi.
cfr. J. G. FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton Editori,
Roma 1999, p. 734).
LE ROGAZIONI
Per Rogazioni si intende delle particolari processioni di ordine penitenziale
nelle quali si supplica il Signoreper le diverse necessità umane,
soprattutto per il raccolto. Diffuse nel pistoiese (San Marcello Pistoiese,
Piteglio e altre località) e in Alto Reno (ad esempio nel Comune
di Granaglione (cfr. P.A.CIUCCI - D.FUMAGALLI, "Una valle da scoprire.
Valle del Randaragna dell'Alta Val del Reno", Scuola Grafica Salesiana,
Bologna, 1981, p. 212)) le rogazioni paiono ricondursi ad "un'usanza
di origine indogermanica, tramandata da tutte le tribù del periodo
franco fino all'età moderna" (S. MATINI, "Lo spazio sacro
nella Firenze medicea", Loggia dei Lanzi, Firenze, 1995, p. 30).
Ci domandiamo, a questo punto, se oltre ai franchi la tradizione indogermanica
da cui ha tratto origine l'usanza delle rogazioni non appartenesse anche
ai longobardi.
Un particolare tipo di rogazione, il cosiddetto "bacio dei Cristi"
ancora praticato a Gavinana, sopravvive anche in alcune località
alpine:
"Neanche il bacio delle croci si può considerare un segno
originale del luogo. Il "bacio" si celebra ancora nella Carnia
nello stesso giorno ed è la traccia di un'antica consuetudine di
cortei che si incontravano ai confini delle comunità parrocchiali
e in un caso anche su un ponte di confine tra Italia ed Austria. Si trattava
di una cerimonia talmente sentita dalla gente da potere essere piegata
anche a forme di potere. Nel periodo feudale in Carnia i vescovadi più
forti imponevano infatti il bacio di sudditanza a quelli più deboli"
(P. DE SIMONIS - C. ROSATI, "Atlante delle tradizioni popolari pistoiesi",
M&M Artout, Pistoia, 2000, p. 68).
Anche a livello delle normali processioni ritieniamo di poter scorgere,
accanto alla tradizione romana delle "Lustrazioni", ancora l'eco
di antiche ritualità germaniche:
"Reudigni, Avioni, Angli, Varini, Eudosi, Suardoni, Nuoitoni sono
protetti da fiumi e foreste. Presi singolarmente non hanno nulla di notevole,
se non che condividono il culto di Nerthus, la Terra - madre, e pensano
che questa si interessi delle vicende degli uomini e sia trasportata in
processione tra i popoli. Su un'isola dell'oceano sorge un boschetto incontaminato
che ospita un carro dedicato alla dea, coperto da un telo: soltanto a
un sacerdote è lecito toccarlo. Costui percepisce la presenza della
dea nella parte più interna del santuario e le si pone al seguito
con grande venerazione mentre sul carro viene trainata da giovenche. Seguono
giorni di gioia, e sono luoghi in festa quelli che la dea si degna di
visitare come ospite" (TACITO, "Germania", XL, 2 - 3).
Nelle processioni cristiane, quindi, il popolo romano e il popolo longobardo
si ritrovavano uniti nel nome delle loro diverse ancestrali ritualità,
ancestrali ritualità che sono sopravissute fino a non molti anni
addietro come ci illustra il seguente passo tratto dal Dizionario Toponomastico
del Comune di Sambuca Pistoiese (Pistoia, 1993, p. 125):
"Al tempo delle rogazioni, nella giornata del 25 aprile, festività
di San Marco, si faceva una processione da Posola a Canal di Sasso di
Sotto per benedire i campi e le stalle. Nei luoghi di sosta della processione
si costruivano dei piccoli altari con offerte a base di uova e formaggio".
Anche in questo caso appare forte la suggestione degli antichi culti della
primavera germanici che prevedevano offerte alla dea Eostrea a base di
uova. E forte è anche la suggestione dell'offerta del formaggio,
considerato che i popoli germanici erano tutti dei grandi allevatori di
bestiame, che i longobardi erano usi sacrificare teste di capre (dalla
capra al suo prodotto) e che, infine, anche la mucca rivestiva per gli
antichi popoli germani una importanza fondamentale nella sfera del sacro
(si pensi alla vacca Andumbla).
L'UOMO SELVATICO E LA DONNA GATTO
Come in altre zone della penisola italiana anche in Alto Reno (vedi Nueter,
1981, n. 2, p. 3 - La Musola, 1972, n. 12, p. 67) esiste la leggenda dell'Uomo
Selvatico ('ommo salvadgo' a Pavana). Tale tradizione è tuttavia
di tipo germanico e particolarmente diffusa lungo l'arco alpino (es: i
Salvadegh del Tirolo). Alcune leggende sull'uomo selvatico sembrano peraltro
rifarsi alla presenza di consorterie di Lambardi, attribuendo agli stessi
tuttavia un connotato fortemente negativo, ad esempio a Carpineta di Camugnano:
"Gli Arimanni o Execitales si trasformarono da guerrieri liberi ...
in una classe di possessores che racchiudeva in sé stessa, come
pegno del suo predominio, i valori e gli oneri della propria tradizione
germanica... Dal clero, dalla piccola borghesia cittadina e dal popolo
rurale erano visti con disprezzo a ricordo forse delle prime violenze
e in presenza di rapporti economici e politici vessatori... Tracce di
questi conflitti etnico - sociali sono presenti in alcune leggende...
Nei pressi di Camugnano, il feudatario del luogo assunse i panni, nell'immaginario
popolare, dell'uomo selvatico. Ecco la storia. Il 'selvatico' aveva costretto
con la forza una ragazza a diventare sua amorosa. Gli abitanti di Carpineta,
ove la ragazza viveva, nulla potevano fare per contrastare questo rapporto.
Ma la ragazza non si fece intimidire: 'invitato' in casa il fidanzato
con un tranello gli fece depositare la spada [per andare alla messa] (nonera
conveniente infatti che un cristiano si recasse alla Santa Messa armato),
e al ritorno [dalla messa] con la stessa spada l'uccise" (Savena
Setta Sambro, n. 10, 1996, pp. 26 - 27).
Nella novella il "pecoraro a corte" pubblicato nelle "sessanta
novelle popolari pistoiesi" (titolo originale "Il Figliolo del
Pecorajo") compare, a inizio racconto, una figura che già
nella traduzione di Italo Calvino rimanda all'uomo selvatico, ma che nella
versione originale del Nerucci ne risulta ancora più affine.
Segnaliamo, come singolare coincidenza, l'esistenza di donne che diventano
gatti sia nell'Alto Reno (secondo un racconto di Cecchi Luciana di Porretta)
che presso i Walser. Rimanendo in tema di gatti ricordiamo come fino alla
fine degli anni '40 del XX secolo sopravvisse a Candeglia (XIV) la benedizione
del cibo del gatto durante la festività di Sant'Antonio Abate (P.DE
SIMONIS - C. ROSATI, Op. cit., p. 126). Personalmente ci piace pensare
che tanto interesse per il gatto possa essere un lascito dell'interesse
che i popoli germani avevano per questo felino (animale sacro a Freya,
dea dell'amore, e legato al mito del dio Thor).
Sempre nel campo delle tradizioni vale la pena ricordare, nel pistoiese,
una tradizione identica a quella tedesca dell'Eierollen (o Eierschieben):
"Dal cosmo all'argine del torrente Stella: da dove i bambini di San
Biagio facevano rotolare uova sode colorate" (P. de Simonis - C.
Rosati, "Atlante delle tradizioni popolari pistoiesi", M&M
Artout, Pistoia, 2000, p. 67).
Decisamente più difficile da ricostruire è la tradizione
del vischio a Natale (comunque attestata in una realtà spaziale
ben più ampia di quella della nostra ricerca e di probabile importazione),
una delle tante interpretazioni la vuole comunque legata al mito di Baldur:
Baldur, figlio di Odino (capo di tutti gli dei) e della dea Frigga, era
amato da tutti suscitando, in tal modo, l'invidia di Loki che minacciò
di ucciderlo. Frigga ordinò, così, a tutte le creature di
non danneggiare suo figlio, ma tralascio il vischio che era "troppo
giovane per giurare". Da un ramo di vischio Loki ricavò l'arma
che uccise Baldur. Accortasi della morte del figlio, la dea Frigga iniziò
a piangere sul suo corpo e le lacrime della dea, a contatto con il vischio,
si trasformarono in perle. Secondo James G. Frazer a questa mito scandinavo
si devono far risalire le tradizioni della raccolta del vischio e dell'incendio
di fantocci (cfr. J. G. FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton
Editori, Roma, 1999, pp. 673 ss.). Non sarà, a questo punto, inutile
ricordare che la località lizzanese di Segavecchia pare prendere
il nome dalla tradizione di segare e dare alle fiamme un fantoccio che,
evidentemente, ripercorre il mito di Baldur ma invertendo il significato
(da positivo a negativo) della leggenda (cfr. in proposito "La Musola",
n. 30, 1981, pp. 248 - 249 e "E... viandare", n. 3, 2004, pp.
86 - 88). (XV)
IL MONDO DELLE FIABE
Il modo migliore per iniziare questo paragrafo è, sicuramente,
una testimonianza di Francesco Guccini:
"Dopo, col passare degli anni e l'arrivo di un'età differente,
cominci ad intuire più cose e a raccogliere indizi, ad accorgerti
di fatti. Prima disordinatamente, qua e là: a scuola ti parlano
della regina longobarda Teodolinda, del suo tesoro fra cui una chioccia
con i pulcini d'argento e dici: 'ma io questa storia l'ho già sentita',
e ricordi la leggenda che ti hanno raccontato, quella della regina Selvaggia
di Sambuca, nemica della regina di Treppio e con lei in eterna battaglia,
e che morta fu sepellita sotto ad un pero col suo tesoro, costituito,
guarda te, da una chioccia e pulcini d'oro, che invano cercammo, da ragazzini,
dentro e nelle vicinanze della torre del castello. Coincidenza? Come può
una storia vera e tangibile diventare leggenda? Come può essere
che anche da noi sono passati i longobardi?" (AA.VV., "Torri:
storia, tradizioni, cultura", Società Pistoiese di Storia
Patria, Pistoia, 2003, p. 14).
Altre testimonianze del mondo delle fiabe non sono altrettanto evidenti,
ma sotto certi aspetti risultano ancora più interessanti perché
possono essere la testimonianza dei miti più antichi della popolazione
longobarda. Ad esempio la storia del pesce magico e del pescatore narrata
in una favola di Montale Pistoiese sembra risalire direttamente al mito
germanico del dio Loki e del nano Andvari presente in saghe come il Canto
dei Nibelunghi (Nibelungenlied) o l'Edda di Snorri:
Da "il Drago delle sette teste" (Montale Pistoiese)
"Un bel giorno il pescatore se n'andò con le sue reti a pescare
nel lago vicino, e gli riuscì d'acchiappare un pesce di gran bellezza
e grossezza. Appena tratto fuor d'acqua, il pesce prese a supplicare l'uomo,
che si contentasse di lasciarlo andar via, e in cambio lui gli prometteva
d'insegnargli uno stagno in quei dintorni, dove avrebbe potuto in un momento
fare una pesca ben più ricca. A sentir parlare un pesce, il pescatore
s'impaurì, e senza starci a pensare diede la libertà alla
bestia, che subitò sparì giù nell'acqua. Ma il pescatore,
andato a quello stagno, in due o tre retate di pesci, ne acchiappò
tanti, che tornò più carico d'un ciuco" (fiaba tradizionale
di Montale Pistoiese raccolta in "Fiabe Italiane" a cura di
Italo Calvino, Mondadori, Milano, 2004, p. 276).
Dalla "Edda di Snorri"
"Odhinn mandò Loki in Svartalfaheimr, e là egli giunse
presso un nano che si chiamava Andvari e stava nell'acqua in forma di
pesce. Loki lo catturò e pose come condizione per salvargli la
vita che gli desse tutto l'oro che aveva nella sua casa di pietra. Quando
giunsero alla roccia, il nano mostrò tutto l'oro che possedeva:
si trattava di parecchia moneta" ("Edda di Snorri", Rusconi,
Milano, 1988, p. 182).
Un altro racconto che pare ricondursi direttamente alla figura del dio
Odino lo si ritrova nella fiaba altorenana dello "Abate senza pensieri":
Da "l'Abate senza penséri"
"A jera una volta un grosso segnore c'al s'chiamava l'Abate senza
penséri. Un dì c'l'andava e s'incontratte con al Re e sto
Re al disse: 'Comme t'chiammi?' - 'Mi m' chiammo l'Abate senza penséri'.
'Donca, ti di penséri en'n t'n'a!'. E lu al rispondette: 'Mi di
penséri i n'n o mai avù' - 'I t'i farò vgnir io i
penséri! Se drento a tre dì en'n t'me spiegherai sté
tre cose, per ti a i srà al tajo dla testa" (fiaba tradizionale
di Badi raccolta in "Saggi folklorici in dialetto di Badi" a
cura di Tito Zanardelli, Zanichelli, Bologna, 1910, p. 19).
Da "La sfida del gigante" (dall'Edda Poetica)
"Odino si recò sotto smentite spoglie al palazzo del gigante
Vafthrudnir e lo sfidò: 'Ogniuno di noi dovrà rispondere
a un certo numero di domande rivoltegli dall'altro; chi non risponderà
anche a una sola domanda, perderà la testa'". (in D. NOVACCO,
"Dei, Eroi e cavalieri dell'età medioevale", Gherardo
Casini Editore, Roma, 1987, p. 28).
Nella cosiddetta "Fola del nonno" (una favola tradizionale di
Lizzano in Belvedere pubblicata alle pp. 127 ss. della rivista "La
Musola" n. 31 del 1982) compare anche la figura del nano (nel testo
si usano i termini gnomo e nano come sinonimi). Come è noto la
tradizione del nano è nordico - germanica e normalmente compare
solo nella zona alpina dell'Italia (XVI). Il caso del nostro nano lizzanese
è, oltretutto, ancora debitore in qualche modo della mitologia
germanica:
Da "La fola del nonno"
"Batteva l'ultimo colpo a mezzanotte e venne lo gnomo e domandò:
-Cosa mi dai in cambio del potere? - E lei - Nulla ho più, e nulla
posso dare-
-Hai oro ancora?" (La Musola, n. 31/1982, p. 126).
Ritroviamo la figura del nano, peraltro, anche in altre favole lizzanesi
come la "Fola di sette corvi" ("la favola dei sette corvi"):
"Lassù in vetta al Corno e' gh'era 'na tana e drent a c'la
tana i' ghe stévne sette nani, ch' i' finne un bel inchin ai corvi
e i' s' missne subbito al sò servizio"
Come si vede anche i nani lizzanesi, come i nani della favolistica germanica,
vivono nelle viscere dei monti
E come non ricollegare la fiaba di Montale Pistoiese che ha come protagonista
una "testa di bufala", viva e parlante pur senza corpo (cfr.
"Fiabe Italiane" a cura di Italo Calvino, Mondadori, Milano,
2004, pp. 349 - 355), ai culti longobardi?:
"Riti pagani compiuti dai Longobardi in Italia sono attestati nei
"Dialogi" di Gregorio Magno, in cui si parla di due cerimonie:
una è solo accennata, l'altra è descritta in modo particolareggiato
e riferisce l'immolazione di una testa di capra, una danza e canti sacri.
Presso i Germani era consuetudine sacrificare degli animali decapitandoli
e usare i crani per i loro culti; la capra poi era strettamente legata
alla divinità germanica Thor / Donner" (S. ROVAGNATI, "I
Longobardi", Xenia, Milano, 2003, p. 101).
E infatti nella "Gylfaginning" il dio Thor sfama sè stesso
e i suoi compagni con due capri, di cui fa conservare le ossa e le pelli,
per poi con il suo martello resuscitare gli animali stessi a partire dalle
ossa e dalle pelli conservate.
Ancora più esplicito in proposito è il contenuto della fiaba
"barba di capra" raccolta nel 1910 dallo Zanardelli a Badi (frazione
di Castel di Casio):
"E in stó mentre che la fióla al guardava per tóji
su, a s'stricatte la cassa e ai i mozzatte la tèsta. La madre,
a la svèlta, andè a tóne unna d'cavra é a
i mésse quella é pò a la mandatte via" (dai
"Saggi folklorici in dialetto di Badi" di T. Zanardelli, Zanichelli,
Bologna 1910, p. 17).
Peraltro anche nella favola lizzanese del caprone (un caprone parlante)
l'ovino è destinato a perdere la testa: "Chiappò l'acétta
e el taJò el collo al cavron"
Di crudeli pratiche germaniche rimangono (o sembrano rimanere) ancora
labili tracce in alcune fiabe locali come quella badese della "Donna
che non voleva far niente"
Da "La Donna che non voleva far niente"
Tonio voleva svergognare sua moglie e perciò si era messo d'accordo
con quelli della festa. Comandò un ballo; ballarono. Quando furono
al centro dell'aia lui svelto le tirò via la mantellina e lei restò
tutta nuda con addosso soltanto le sue acce, una davanti e una dietro.
Allora tutti si misero a schernirla, uomini e donne" (FIABE ROMAGNOLE
E EMILIANE, Mondadori, Milano, 2000, pp. 63 - 65)
Da "Germania" di Tacito
"Gli adulteri sono rarissimi presso queste genti così numerose;
la punizione per tale colpa è immediata ed affidata al marito:
di fronte ai parenti stretti caccia di casa l'adultera, denudata e coi
capelli rasati e, spingendola con la frusta, le fa attraversare tutto
il villaggio" (TACITO, "Germania", XIX, 1)
Rimanendo in tema di fiabe e leggende vale la pena ricordare anche la
principessa Orsina:
E' noto che la Valle, il paese, il monte e il Torrente "Orsigna"
prendono il loro nome dal fatto che l'intera zona era abitata da orsi.
Vi è tuttavia una originale leggenda sull'origine del nome Orsigna
e che parla di una principessa:
"Una altra origine del toponimo la si può far risalire ad
una mitica principessa Orsina, i resti del cui castello si potevano scorgere
ancora fino a cinquant'anni addietro nelle vicinanze dell'attuale abitato.
Si narra che tale principessa si servisse di un corpo di soldatesse, novelle
amazzoni, che per ritemprarsi d'estate dalle fatiche della naja, andassero
a prendere il sole in una vicina località che da allora prese il
nome di Poggio delle Ignude" (MAURIZIO PANCONESI, "Presente
e passato tra gli Appennini: Alta Val del Reno e Badia a Taona",
La Vaporiera, Cento, 2003, p. 105).
Ora è evidente che la tradizione locale ripercorre il mito di Artemide
/ Diana, ma è altrettanto evidente che la stessa tradizione sembra
ricondursi ad una leggenda longobarda citata da Paolo Diacono nella sua
"Storia dei Longobardi":
"Si racconta che una volta i Longobardi, mentre erano in marcia col
loro re, giunsero alla riva di un fiume; impediti dalle Amazzoni ["Amazonibus"
nell'originale latino] di procedere oltre, Lamissione a nuoto andò
a combattere in mezzo alla corrente con la più forte di esse e
la uccise, procurando a se stesso il vanto della gloria e ai Longobardi
il passaggio. Infatti tra le due schiere si era stabilito in precedenza
questo: se l'amazzone avesse vinto Lamissione, i Longobardi si sarebbero
ritirati dal fiume, ma se, come avvenne, essa fosse stata vinta, ai Longobardi
sarebbe stato concesso il diritto di attraversare quelle correnti. Tuttavia
la cronologia di questo racconto risulta avere uno scarso fondamento di
verità. Infatti, a tutti coloro che conoscono le antiche storie,
consta che la stirpe delle Amazzoni fu distrutta assai prima di quando
poterono accadere questi fatti; a meno di pensare che, siccome i luoghi
nei quali la tradizione li colloca non erano molto noti agli storici e
a stento sono stati ricordati da qualcuno, in essi sia potuta sopravvivere
la stirpe di tali donne. Anch'io ho sentito dire infatti da certuni che
ancora oggi nelle regioni più interne della Germania vive una tribù
di queste donne" (P. DIACONO, "Storia dei Longobardi",
Rizzoli, Milano, 2000, p. 169).
E sia detto, sia pure per inciso, che effettivamente è esistita
una popolazione germanica guidata da amazzoni, come testimonia Tacito:
"A contatto con i Suioni sono le tribù dei Sithoni. Simili
quanto a tutto il resto, in una sola cosa differiscono: li governano le
donne" (Tacito, Germania, XLV, 6)
Anche Jordanes, nella sua "Storia dei Goti", narra delle Amazzoni.
Anzi per Jordanes le Amazzoni sarebbero delle donne del popolo gotico:
"Le femmine dei Goti, attaccate da una popolazione vicina, resistettero
fortemente a quei maschi che le avrebbero volute per preda, respingendo
con somma ignominia di questi ultimi, i nemici invasori. Esaltate dalla
vittoria ed eccitandosi a vicenda ... esse volevano e difendere la propria
terra ed attaccare quella altrui" (JORDANES, "Storia dei Goti",
Tea, Milano, 1999, p. 23).
Naturalmente da un ambito di ricerca così ristretto si sono esclusi
volutamente riferimenti a fiabe ampiamente diffuse nel continente europeo
come Cappuccetto Rosso (che risulta presente in Francia, Germania, etc.).
Tuttavia, e facendo comunque salvo quanto sopra, fa pur sempre una certa
impressione rintracciare nella lizzanese "fola del tree ocarine"
(fiaba tradizionale pubblicata sulla rivista locale La Musola (gennaio
/ giugno 1972)) la tradizionale fiaba inglese dei tre porcellini, così
come desta un qualche stupore ritrovare nella pistoiese favola della "Trappola
della strega" un racconto tradizionale tedesco riportato nei "Discorsi
Conviviali" di Martin Lutero (cfr. C. LAPUCCI, "Il libro delle
veglie", A. Vallardi, Milano, 1988, p. 85). Ma ancora più
impressionante appare l'analogo spunto drammatico che muove la fiaba montalese
"Pelle di vecchia" e la tragedia shakespeareana del "Re
Lear". Si riporta in ogni caso, e a puro titolo di esempio, il testo
completo della favola delle tre ocarine ("fola del tree ocarine").
La fola del tree ocarine
"E gh era na volta na donna c l a pognì na galina. E in mezzo
a gl' ove d galina la g misse tree ove d oca. Quande e nascì i
pirin, i pirin i andonne con la chioccia e gl' ocarine e gl' andonne da
per sì. E gl' andavne gio per la Viaccia. E la più granda
la g disse: "Savì vu quel che e fen adesso? E c' fen na bella
caslina". E chegliatre: "Ma com fareni mai a fac' la caslina?".
E la più granda: "E c' caven tutte el penne e e c' fen na
caslina che st inverno e sten in ca'". E alora e s cavonne tutte
el penne e e s fenne na caslina. Quando i avinne fnì la caslina,
la disse la più granda: "Asptaa mo, che adesso e vo a veddre
comme e s ghe sta". L'andò drento. L'asrò l'usso. E
la disse: "Adesso staa mo forra su vatre, che mi e nun ghe vojo".
Alora chegliatre doo ocarine via che s andonne, cridando. E doppo la mzana
la disse: "Mo perchè nuc c'fen na caslina con i spunctigon?".
E s cavonne tutti i spunctigon e e s fenne na caslina. E po doppo la mzana
l andò drento. L'asrò l'usso. E la gh disse: "Joh,
comme se sta ben! Ma ti nun t ghe vojo, brutta bindella". E alora
la più c'nina via ch la s andò, cridando. Quand la fu un
pezzo in giò per la Viaccia la s incontrò un muradore che
e gh disse: "C atu ti da cridare, bella ocarina? Lee la g contò
tutti i soo quee e el soo desgrazie. Alora el muradore, ch l era un più
bon ommo, e s misse dré' e e gh fe' na bella caslina ed muradura.
Col so usso d leggno e na bella fnestrina; e prinfin la fogolarina. Alora
l'ocarina l'andò drento, l aringraziò el muradore, e la
disse: "Joh, comme se sta ben!". Doppo e gnì notte. E,
quande e fu buro, buro, saltò forra el luvo. L'andò da la
primma ocarina e gli disse: "Ocarina, bella ocarina, vertme l'usso!".
"No, brutto luvaccio, che ti tu m voo mangdiare!.". "Averta
l'usso consquantinò amollo un scorgion che t butto giò el
cason". L'ocarina dalla pavura e n g avertò brisa l'usso.
Alora ed luvo el fé' un scorgion, el buttò gio el cason
e s la mangdiò. La sira doppo el luvo l'andò da la mzana
e gh disse: "Ocarina, bella ocarina, vertme l'usso! ". "No,
brutto luvaccio, che ti tu m voo mangdiare!". "Averta l'usso
consquantinò amollo un scorgion che t butto gio el cason".
L'ocarina dalla pavura e n g avertò brisa l'usso. Alora el luvo
el fé un scorgion, el buttò gio el cason e s la mangdiò.
Clatra sira l'andò da la più c'nina e e gh disse: "Ocarina,
bella ocarina, vertme l'usso! ". "No, brutto luvaccio, che ti
tu m voo mangdiare!". "Averta l'usso consquantinò amano
un scorgion che t butto gio el cason". L'ocarina dalla pavura e n
g avertò brisa l'usso. Alora el luvo el fé un scorgion,
mo la ca' l'avanzò su, perchè l'era d muradura. Alora l'ocarina
via c l andò d fureggio a appiare el fogo in t la fogolarina e
la misse su na caldrina piena d'acqua. Quant l'acqua la s misse a bojre,
l'avertò la fnestrina e gio ch la ficcò tutta l'acqua in
cò al luvo. Ch l avanzò cotto e strinà, negro, negro
comme un tizzo" (fiaba tradizionale lizzanese in "La Musola",
rivista lizzanese, n. 11, gennaio - giugno 1972, p. 51).
Peraltro uno studio più approfondito sulla favolistica
(anche colta) italiana potrebbe condurre gli studiosi a scoprire inaspettati
collegamenti tra la favolistica italiana e la mitologia germanica (clicca
qui per saperne di più)
Non andrà comunque mai dimenticato che le coincidenze, anche se
straordinarie, possono essere semplicemente coincidenze. Ad esempio le
straordinarie somiglianze tra il mito eddico del matrimonio tra Trym e
Thor e la trama della Casina di Plauto (il grande commediografo latino
morto nel 184 a.C.) possono essere spiegate solo ricorrendo al caso
***********************************************************
IL MATRIMONIO TRA THOR E TRYM
Una mattina Thor scopre al risveglio che il suo martello Mjölner
è sparito. Chiesto consiglio a Loki, il dio più astuto in
Asgard, scopre che i gigante Trym lo ha rubato allo scopo di potere sposare
la dea Freja. Thor allora decide di cammuffarsi nei panni di Freja. Durante
il banchetto di nozze Thor mangia un bue intero, otto salmoni e 300 litri
di birra. Trym rimase stupefatto, ma Loki rispose:
- "Freja non ha mangiato per otto giorni pensando a voi".
Trym rimase soddisfatto con quella risposta e stava per baciare Thor travestito,
ma quando vide gli occhi del dio ne rimane terrorizzato.
- "Freja non ha dormito per otto notti consumata dal desiderio di
vedervi", rispose allora Loki
Trym venne così tranquillizato da Loki e Thor riuscì a rientrare
in possesso del martello.
E non appena in possesso del martello Thor, con un colpo terribile, uccise
Trym e la sua famiglia.
CASINA DI PLAUTO
Di Casina, una trovatella, si sono invaghiti il vecchio Lisidamo e il
figlio di lui, Eutinico. Essi hanno indotto, l’uno il proprio fattore,
l’altro il proprio scudiero, a chiedere la mano della fanciulla,
per poterne poi essi stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la
strada dal figlio, lo spedisce all’estero, ma la moglie del vecchio,
che conosce le intenzioni del marito, prende le parti del figliolo assente.
Poiché Lisidamo e sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono
di ricorrere alla sorte. Questa favorisce il fattore. Si preparano le
nozze, ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo scudiero,
travestito da donna, che, approfittando dell’oscurità della
stanza in cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo.
******************************************************************
Questo a meno che non rispolveriamo la vecchia ipotesi che i latini condividevano
coi germani un'origine nordica o, comunque, settentrionale:
"Bisogna dunque presupporre che le sedi preistoriche dei Latini fossero
in un territorio confinante con quello germanico, i cui estremi limiti
meridionali potevano arrivare nel 1200 - 1100 a.C. forse fino al corso
inferiore dell'Elba e al corso medio - inferiore della Weser" (A.Scaffidi
Abate, "Introduzione allo studio comparativo delle lingue germaniche
antiche", Patron, Bologna, 1992, p. 227).
Le concordanze linguistiche tra latini e germani al confronto di tutte
le altre popolazioni indeuropee (dai celti ai baltici, dai greci agli
slavi, agli illirici, etc.) sono tali, infatti, da potere essere spiegate
solo con un lungo periodo di vicinato (ibid. p. 227) e, pertanto, come
è stato possibile reciprocamente influirsi nella lingua, allo stesso
modo logicamente si dovrà amettere una altrettanto profonda e reciproca
influenza culturale (è possibile dunque che alcune delle tradizioni
più antiche di germani e latine rintracciate anche in questo lavoro
abbiano una comune origine "nordica")
Ma i casi di collegamento tra la tradizione mitica germanica e quella
latina sono molto più numerosi e, addirittura, si mischiano con
la tradizione colta italiana (ad esempio nell'Orlando Innamorato di Matteo
Maria Boiardo)
Bandiera storica di Pistoia
IL SANTUARIO DI MONTOVOLO
Montovolo in realtà è un poco fuori dall'area di interesse
della nostra ricerca, ma merita di essere menzionata perché rappresentò
una delle estreme propaggini settentrionali dei territori longobardo -
pistoiesi.
A Montovolo sopravvivono due strane leggende che noi vediamo ricollegate
proprio ai longobardi:
La prima narra di un serpente, nascosto sotto una grossa pietra (secondo
una variante della stessa leggenda il serpente vivrebbe nascosto sotto
un pozzo od una galleria)a custodia di un tesoro, che aspetta un bacio
da una giovane per riprendere le sembianze umane.
Considerato che Montovolo rappresenta una importante area sacra fin dall'antichità
(in proposito c'è una interessante ipotesi del prof. Baccolini
dell'Università di Bologna su Montovolo come centro oracolare etrusco)
non ci pare difficile scorgere nella leggenda la sopravvivenza di un antico
culto longobardo della vipera citato nella 'Vita Barbati episcopi beneventani'
(cfr. S. ROVAGNATI, "I Longobardi", Xenia, Milano, 2003, p.
101).
La seconda leggenda narra di giganteschi guerrieri che cambattevano tra
loro a Montovolo.
E qui è ancora più facile scorgere l'eco delle battaglie
sostenute tra i bizantini e i longobardi per il possesso di quel territorio.
Una importante versione della stessa leggenda si ricollega, invece, alle
guerre tra Longobardi e Franchi:
"La leggendaria figura dei 'paladini' che è molto viva e presente
nella tradizione popolare, si può fare risalire alla probabile
presenza dei Franchi di Pipino giunti in quei luoghi nel 754 per combattere
i Longobardi, per invito di Papa Stefano III. Nelle testimonianze della
gente i Paladini sono raffigurati come biondissimi giganti dotati di una
enorme forza che combattevano scagliando pesantissimi palanchini di ferro
da Montovolo fino a Monte Acuto Ragazza e fino a Lagaro" (Nueter,
anno 2, n. 4, 1976, p. 16).
Sembra peraltro che a Montovolo esista una leggenda relativa a un "caprone
diabolico" (Savena Setta Sambro, n. 20, 2001, p. 9)che, a questo
punto, sembrerebbe il relitto di antichi riti longobardi che prevedevano
l'immolazione di capre.
per saperne di più clicca qui
IL SAN GIORGIO ALL'OMBRONE
Nella piccola borgata pistoiese che prende il nome dall'omonima chiesa
di fondazione longobarda - e ricordata in un documento del 7 maggio 784
- è sopravvisuta fino a tempi recenti una tradizione di possibile
origine longobarda o comunque germanica (si tenga presente che presso
i Germani il cavallo ebbe pure una funzione rituale): durante la processione
che si svolgeva il 23 aprile in onore del santo, protettore di cavalli
e cavalieri, partecipavano anche gruppi di uomini a cavallo.
ALTRE TRADIZIONI
Rimanendo in tema di suggestioni longobarde o germaniche presenti in Alto
Reno e nel pistoiese ricordiamo anche tre tradizioni locali (tutte legate
al mondo dell'acqua) che, in qualche modo, suggeriscono una qualche parentela
con le saghe e le tradizioni longobarde o nordico - germaniche:
In primo luogo la Guazza di San Giovanni: in località come Piteglio
o Gaggio Montano era tradizione che nella giornata di San Giovanni (24
giugno) le donne si recassero a piedi nudi, prima dell'alba, nei campi
camminando nell'erba alta e raccogliendo la rugiada del mattino. Questa
tradizione, presente anche in località estranee alla nostra area
di interesse, può in parte ricollegarsi alla cultura mediterranea
(per Plinio la rugiada è "la saliva degli astri"), ma
difficilmente può essere esclusa una reminescenza dei popoli germanici
in Italia come ben illustra il seguente passo dell'Edda di Snorri:
"E quell'acqua è così santa che tutte le cose che vengono
poste nella sorgente diventano bianche come la pellicola, detta membrana,
che è detto guscio dell'uovo; così come qui dice:
Io conosco un frassino irrorato
che si chiama Yggdrasill,
alto albero sacro,
bianco d'argilla,
di là provengono gocce di rugiada
che cadono sulla valle;
è sempre verde
su Urdharbrunnr"
(Edda di Snorri, Rusconi, Milano, 1988, p. 87).
Peraltro abbiamo riscontrato la presenza in una altra regione italiana
di una sicura tradizione longobarda che, guardacaso, pare ricollegare
sia la nostra tradizionale "Guazza di San Giovanni" che le nostre
tradizionali "mummie":
"Molto potere, inoltre, viene affidato alle bocce naturali di pietra,
chiamate "geodi" che sono presenti in alcune zone del monte
Playa. Si crede, infatti, che tali geodi, soprattutto se raccolti nella
mattinata del 24 Giugno, festa di San Giovanni Battista, e poi infissi
ai muri o collocati nelle fondamenta di una casa in costruzione, esercitino
un potere protettivo. Alcuni studi hanno dimostrato che tali pietre, altrove
chiamate "mamme longobarde" o "pocce lattarie" sono
da ricollegarsi a riti di fertilità in zone ricche di acque sorgive
(come indica appunto il nome del paese) e alla presenza di insediamenti
longobardi"
(http://www.scuolevalledelsagittario.it/INTRODACQUA/TRADIZIONIRISCOPERTE.htm).
E di longobardo in questa tradizione riscontriamo anche due ulteriori
prove nel nome stesso della tradizione ("Guazza" da "Wazzer")
e nel Santo a cui la tradizione è dedicata (San Giovanni Battista
a cui i Longobardi si legarono a seguito della conversione al cattolicesimo
di questo popolo prima dedito al paganesimo e, poi, all'eresia ariana).
Peraltro non è forse fuori luogo ricordare come presso i popoli
germani il solstizio d'estate venne mimetizzato nella festa cristiana
di San Giovanni, a cui resta comunque il nome di di midsummer (un relitto
della sacralità del midsummer per i germani si può riscontrare
anche nella storia piena di incantesimi rievocata nel "Sogno di una
notte di mezz'estate di Shakespeare).
La guazza di San Giovanni serviva anche per preservare oggetti, indumenti
e animali da malefici (pertanto venivano lasciati all'aperto durante la
notte del 24 giugno) e a guarire dalle malattie.
Sempre ai riti legati 24 giugno risale il tradizionale falò della
notte di San Giovanni, tradizione del falò presente in molte parti
d'Europa, Malta compresa. Ai fini della nostra ricerca, ovviamente, c'interessa
il confronto con le realtà germaniche:
- CALAMECCA E SATURNANA -
FESTA DI SAN GIOVANNI
(24 giugno) - GERMANIA -
FESTA DI SAN GIOVANNI
(24 giugno) - DANIMARCA E NORVEGIA -
FESTA DI SAN GIOVANNI
(24 giugno)
"Si prepara una bella catasta di legna in Piazza e la sera di notte
gli si dà fuoco" (Maria Cioletti, scuola elementare di Calamecca,
anno scolastico 1298 - 29. citato in P. DE SIMONIS - C. ROSATI, "Atlante
delle tradizioni popolari nel pistoiese", m&m Artout, Pistoia,
2000, p. 137)
"E' oggi una merenda da consumare insieme, il 24 giugno,
dopo la Messa, il momento comunitario che una volta era rappresentato
dal falò sul quale ragazzi e ragazze saltavano come prova di un
futuro matrimonio" (Ibid., p. 138) "Uno scrittore della prima
metà del XVI secolo ci dice che, in ogni villaggio e cittadina
della Germania, si accendevano i falò la vigilia della festa di
San Giovanni e che tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, vi si radunavano
intorno per ballare e cantare" (J. G. FRAZER, "Il ramo d'oro",
Newton Compton Editore, Roma, 1999, pp. 688 - 689) "Anche in Danimarca
e Norvegia, la vigilia di San Giovanni si accendevano i fuochi per le
strade, negli spazi aperti e sulle colline; e i Norvegesi credevano che
quei fuochi scacciassero ogni malattia del bestiame" (J. G. FRAZER,
"Il ramo d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999, p. 690)
Il confronto con le realtà germaniche comunque non autorizza in
alcun modo ad attribuire un'origine sicuramente germanica al nostro falò
di San Giovanni.
Altra suggestione germanica, a nostro avviso, può essere rintracciata
nella tradizione di lavarsi in acqua corrente per proteggere la vista,
ad esempio a Pietrabuona:
"Il Sabato Santo, quando sciolgono le campane, noi ci laviamo il
viso ad acqua corrente, perché i nostri vecchi dicevano che, facendo
così, non viene male agli occhi" (Quaderno della scuola elementare
di Pietrabuona, anno scolastico 1928-29).
In queste tradizioni si coglie, infatti, il rapporto vista / acqua caratterizzante
la stessa figura del dio Odino:
"Là si recò Allfodhr (Odino) e chiese di bere un sorso
dell'acqua tratta dal pozzo ma non l'ottenne se non lasciando in pegno
il suo occhio" (Edda di Snorri, op. cit., pp. 82 -83).
Come ultima suggestione suggeriamo il culto longobardo delle fontane,
così ricordato dal grande storico Muratori:
"Sotto i Re Longobardi, che pure professavano la legge Cristiana
colla lor nazione, apparisce che molti del rozzo popolo con pazza credulità
veneravano certi alberi, da lor chiamati Sanctivi, come se fossero cose
sacre. Gran sacrilegio avrebbero creduto il tagliarli; sembra ancora che
prestassero ad essi qualche segno di adorazione. Lo stesso rito praticavano
verso alcune fontane. Non sappiamo se in essi onorassero Dio, o i Santi,
o i Demonj. Tuttavia trovando noi chiamati que’ superstiziosi riti
Paganiae dagli antichi, si può credere che fossero reliquie del
Paganesimo, professato una volta da’ Longobardi. Truovansi anche
a’ nostri tempi delle nazioni nella Costa Occidentale dell’Africa
infatuate della medesima superstizione." (Ludovico Antonio Muratori,
"Antichità italiane: Dissertazioni - DISSERTAZIONE LIX - Dei
semi delle Superstizioni ne’ secoli scuri dell’Italia").
Tale superstizione ci pare tutt'oggi ben presente considerando che alcuni
santuari mariani (pensiamo al bel santuario della Madonna del Faggio sopra
Castelluccio, alla Madonna della Fonte Nuova nei pressi di Monsummano
oppure al Faggio della Madonna (oggi semplicemente un toponimo) a sud
ovest di Ponte dei Rigoli) sorgono in prossimità di una fontana
e / o di un corso d'acqua. Ma ancora più interessante ci pare la
sopravvivenza, in Alto Reno e nel pistoiese (ad esempio a Piteglio), della
credenza secondo la quale, bevendo alle fontane nelle ore notturne, possano
entrare nel corpo gli spiriti che vivono nell'acqua. Evidentemente l'acqua
delle fontane mantiene ancora un carattere eminentemente sacro (la parola
"sacer" è legata al concetto stesso di "proibito")
di tipo sincretico germanico - latino (le ore notturne sono quelle tradizionalmente
collegate all'Erebo e ad Ecate).
Una variante dello stesso mito vuole che nei rubinetti delle fontane vivono
le anime del purgatorio:
"Anche sotto la gocciola delle cannelle che non chiudono bene: dove
li viene dato noia di più. Il Purgatorio era quello" (D. MUCCI
MAGRINI, "Quando i necci erano il pane", Provincia di Pistoia,
Pistoia, 2002, p. 43).
E come non sentire arrivati a questo punto gli echi della mitica Thule?:
"Gli altri abitanti di Thule... adorano molti dei e spiriti del cielo
e dell'aria, del mare e della terra, come pure altri spiriti che dicono
vivano nelle fonti e nei fiumi; ed assiduamente offrono ogni genere di
sacrifici" (Procopio di Cesarea, "Guerra Gotica", libro
II, § 15).
Naturalmente anche la toponomastica reca tracce di queste credenze, ad
esempio nell'Orsigna Pistoiese:
"Basta scorrere i dintorni sopra Pracchia per trovare, nei nomi,
i simulacri di arcane paure. La Fonte dello Spirito, poco sotto Porta
Franca, è un luogo dove ancora 'ci si sente'" (Savena Setta
Sambro, n. 15, 1998, p. 80).
Che questa e le altre tradizioni citate sopra siano di origine longobarda
(o comunque influenzate dai culti longobardi) ci pare confermato anche
dall'Editto di Rotari che alla'art. 84 recita:
"Simili modo et qui ad arbore, quam rustici sanctivum vocant, atque
ad fontanas adoraverit, aut sacrilegium vel incantationis fecerit, similater
medietatem pretii sui conponat"
e cioè:
"Allo stesso modo paghi la compensazione colui che venera un albero
che i contadini chiamano sacro, o le fonti, ed anche colui cghe fa un
atto sacrilego od un incantesimo"
La tradizione dello spirito del grano come lupo cliccando qui
"mummia" sambucana (PT)
SIMBOLI
Tra i numerosi simboli registrati in area altorenana e pistoiese uno ci
ha particolarmente interessanto. Si tratta della rappresentazione di un
serpente presente in una casa di proprietà della famiglia Butelli
in località Piazza di Treppio che si è pensato talvolta
di collegare con i Visconti di Milano: "Poco distante dalla porta
di ingresso è posta una rozza pietra, sulla quale si vede scolpita
una serpe nell'atto di strisciare pel terreno ...a me è venuto
il dubbio che possa trattarsi dell'insegna dei Visconti di Milano"
(A.BIAGIARELLI, "Un'insegna viscontea a Treppio", Bullettino
Storico Pistoiese, Pistoia, 1937, pp. 157 - 158). A nostro avviso, al
contrario, non è del tutto da escludere una sopravvivenza di una
antica tradizione longobarda: i Longobardi, infatti, portavano come amuleto
un serpente azzurro, loro simbolo, in una borsetta appesa al collo e lo
usavano come insegna militare. E', quindi, assai probabile che lo stesso
simbolo sia passato all'araldica delle scolte armate pistoiesi e, successivamente,
a quella di molti "Capitani del Popolo" della città di
Pistoia che fu (lo ribadiamo) fortemente longobardizzata. Peraltro questa
suggestione la riteniamo a maggiore ragione fondata se consideriamo che
in località Villa di Piteccio (in casa della signora Cristina Cortesi)
è stato recentemente ritrovato un altro stemma recante l'immagine
di una serpe che striscia nel terreno (e, guardacaso, la tradizione locale
vuole che proprio nella zona del ritrovamento ci fosse un distaccamento
regolare di soldati e cavalieri). In ogni caso numerosi altri simboli
meriterebbero un serio approfondimento, ivi compresa la scacchiera dello
stemma pistoiese forse troppo frettolosamente attribuita da alcuni ai
romani (cfr. A. MUELLER HAEGEN - R. F. STRASSER, "Toscana",
Konemann, Colonia, 2001, p. 92).
E rimanendo in tema di serpenti chissà se il misterioso serpente
che compare nel celebre romanzo di Collodi ("Aveva veduto un grosso
Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli
occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di camino"(C.
COLLODI, "Pinocchio", cap. XX))non possa essere debitore di
qualche mito longobardo (tipo una versione popolare e ironica dei miti
di San Michele e San Giorgio uccisori di draghi): "il Serpente si
rizzò all'improvviso, come una molla scattata: e il burattino,
nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra.E
per l'appunto cadde così male, che restò col capo conficcato
nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria. Alla vista di
quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile
il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi,
alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena
sul petto: e quella volta morì davvero" (C. COLLODI, "Pinocchio",
cap. XX).
Una ironia tuttavia non così lontana da quella germanica per chi
conosce le avventure di Thor (per pura casualità anch'esso uccisore
di draghi come illustra una scena mitologica runica pubblicata in N. DI
MAURO, "Normanni", Giunti, Firenze, 2003, p. 9) con Utgard -
Loki e Skrymir (vedi l'Edda Poetica):
Allora esasperato, prese il martello e vibrò un colpo terribile
sul capo dell'omone addormentato. "Deve essere caduta una foglia
dall'albero", disse Skrymir destandosi, poi si voltò dall'altra
parte, e ricominciò a russare. Thor aspettò un poco, poi
diede un'altra tremenda martellata sul capo di Skrymir. "E' caduta
una ghianda?", domandò questi, svegliandosi per la seconda
volta.
L'intera opera di Pinocchio meriterebbe, in ogni caso, un attento esame
anche dal punto di vista della filologia germanica. Ad esempio la scelta
di creare un burattino di legno in tutto simile ad un essere umano può
davvero essere considerata estranea al mito nordico della creazione degli
essere umani? Si confrontino, a tale, proposito i seguenti brani:
"dopo aver creato il mondo ed aver dato vita alla stirpe dei nani,
i figli di Borr ripresero la via di casa. Giunti che furono sulle sponde
del mare, trovarono due alberi sbattuti a riva dalle onde. Erano un frassino
ed un olmo. I due tronchi giacevano sulla sabbia, senza vita, senza energia,
senza un destino.Allora Óðinn diede loro il respiro e la vita,
Vili diede loro la saggezza e il movimento, Vé diede loro forma,
parola, udito e vista. Così da due tronchi inanimati venne la prima
coppia umana. I figli di Borr imposero loro dei nomi: l'uomo si chiamò
Askr "Frassino" e la donna Embla "Olmo". Gli dèi
diedero loro delle vesti, come ricorda Óðinn nel Canto dell'Eccelso"
"Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò
a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli
occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse
che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto,
vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n'ebbe quasi per male,
e disse con accento risentito: "Occhiacci di legno, perché
mi guardate?" Nessuno rispose..." (C. COLLODI, "Pinocchio",
cap. III).
Per amore di verità, tuttavia, andrà menzionato anche un
antico mito Maya sulla creazione degli uomini contenuto nel "Popol
Vuh":
"Nel momento in cui parlarono fu compiuto: i manichini, sculture
di legno, [divennero] uomini nell'aspetto e uomini nella parola. Così
fu popolata la terra" ("Popol Vuh", Rizzoli, Milano, 1998,
p. 71).
Il che sposta l'ambito di ricerca da quello della germanistica a quello
più ampio dei miti universali dell'umanità.
*******
Tornando ai simboli andrà fatto un doverso cenno
anche alle rune. Come è noto i Germani, prima di adottare l'alfabeto
latino, conoscevano un'altra forma di scrittura, anch'essa di tipo alfabetico
chimata runica (da runa = segreto, sussurro). L'alfabeto runico (che generalmente
viene fatto originare dall'alfabeto etrusco per tramite della lingua venetica)
era composto di ventiquattro segni disposti in un ordine fisso. In Italia
non esistono esempi di epigrafia runica ad eccezione di un paio di iscrizioni
nelle catacombe romane di Commodilla e dei Santi Pietro e Marcellino e
di alcune rune graffite sui muri del Santuario di San Michele sul Gargano
(l'iscrizione runica del terzo leone dell'Arsenale di Venezia non può
essere considerata come "italiana" in quanto il leone stesso
fu trafugato dal Pireo nel 1687) , tuttavia in diverse incisioni rupestri
presenti nel territorio nazionale compaiono graffiti paragonabili alle
rune "daeg" / "dagaz" (una specie di farfallina stilizzata
che rappresenta il giorno e che lo studioso Leonardo de Marchi attesta
già in età etrusca), "tyr" (una sorta di freccia
rivolta verso l'alto), "eiwaz" / "elhaz" (una sorta
di zampetta di gallo), etc. Esempi di questi graffiti si ritrovano anche
nelle incisioni rupestri (a carattere magico - sacrale) poste tra le Valli
della Brana, delle Bure e dell'Alta Limentra Orientale (es: Sasso del
Consiglio, Sasso di Catiro, Sasso alla Pasqua, etc.). Che si tratti di
relitti runici o relitti dell'alfabeto etrusco (o ancora di una sopravvivenza
di antichi simboli primitivi a cui gli etruschi stessi si ispirarono nella
redazione del loro alfabeto) non ci è dato sapere, tuttavia riteniamo
estremamente significativa la persistenza, nella nostra area di interesse,
di testimonianze relative a una attività incisoria che molto potrebbe
dirci sull'origine (o sulla fine) del sistema alfabetico runico. Per chi
vuole saperne di più si consiglia di leggere: L. DE MARCHI, "I
sassi scritti delle Limentre", Gruppo di Studi Alta Val del Reno,
Porretta Terme, 2000 e L. DE MARCHI, "Un complesso incisorio di Arte
rupestre in Val di Brana (Provincia di Pistoia): i sassi scritti della
Croce al Romito" in Nueter, n. 57 (anno 2003), pp. 52 - 58).
Tra i simboli di origine celto - germanica presenti in Alto
Reno, nel pistoiese (es: Villa di Piteccio) e nella stessa Pistoia si
riscontra anche la triskel (la svastica a tre braccia che si può
osservare in alcune chiese come San Pier Maggiore e il cui uso fu interdetto
ai tempi di Papa Urbano VIII nel 17^ secolo) e il Sole delle Alpi, il
simbolo del Sole delle Alpi è presente anche in un tipico dolce
pistoiese (i brigidini) nonché nelle montanare crescentine. A titolo
puramente esemplificativo ricordiamo come alcuni interessanti esemplari
di Sole delle Alpi risalenti all'età e all'opera di sicure maestranze
longobarde sono riportati in una lastra tombale con raffigurazione di
pavoni conservata nella Chiesa di Santa Maria Etiopissa di Polegge (Vicenza)
nonché in una lastra marmorea custodita nll'Abbazia di San Pietro
in Valle a Ferentillo (Terni). Non sembra, ai nostri occhi, potere rientrare
tra i simboli di origine o uso germanico il cosiddetto "nodo di salomone"
molto attestato nel nostro territorio e, in specie, in area appenninica.
ANGHERIA
L'odiosa pratica longobarda delle angherie è sopravvissuta in Toscana
e in Alto Reno fino alla prima metà del secolo scorso (cfr. A.
GRAMSCI, "Passato e Presente", Editori Riuniti, Roma, 1979,
pp. 254 - 255 e G. SIRGI, "Montagna, terra di emigrazione",
Nueter, Porretta Terme, 2002, p. 96). In Alto Reno il vocabolo "ANGARIA"
(col significato di angheria) è attestato ancora, ad esempio, nel
dialetto di Treppio (cfr. Nueter, XXVI, 2000, p. 158).
Molto interessante ci pare confrontare la tradizione delle "Angherie"
longobarde con quelle più recenti in uso nel pistoiese e nel bolognese
tra XIX e prima metà del XX secolo:
SITUAZIONE LONGOBARDA
"I vari fondi che facevano riferimento alla curtis erano poi distinti
in terrae massariciae e terrae domenicae (indicate quest'ultime anche
con i termini di sundrio o domus culta). Le prime corrispondevano a quei
poderi con 'casa'... lavorati da massari residenti sul posto, che dovevano
dare al proprietario una quota del prodotto, forse un terzo, oltre ad
alcune prestazioni obbligatorie, le cosiddette 'angariae', consistenti
nel lavoro gratuito prestato dal massaro per un certo numero di giornate
sulle terrae dominicae. Erano queste le terre che il proprietario coltivava
direttamente con l'opera degli schiavi domestici (servi et ancillae) ed
appunto con le angariae dei massari" (N. RAUTY, "Il Regno longobardo
e Pistoia", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003,
pp. 104 - 105).
SITUAZIONE PISTOIESE TRA XIX E PRIMA PARTE DEL XX SECOLO
"I patti agrari sancivano un 'contratto' generalmente sempre sbilanciato
a favore del padrone che già fin dall'inizio del rapporto poteva
registrare sul conto corrente in attivo tutte le spese delle 'stime morte',
del bestiame, delle infrastrutture poderali, delle sementi per il primo
anno con l'aggiunta di numerose 'regalie' oltre all'obbligo di eseguire
una quantità variabile di lavori strutturali per il miglioramento
e il mantenimento dei vigneti...I patti colonici che regolavano il rapporto
contadino - padrone, prevedevano obblighi aggiuntivi che variavano da
fattoria a fattoria: si dovevano portare una determinata quantità
di uova durante l'anno, generalmente due capponi, galline e galletti,
una parte del maiale, generalmente un prosciutto, qualche volta anche
una determinata somma per le fascine recuperate nel podere per cuocere
il pane ed anche la prestazione di determinate giornate di lavoro per
le donne per le pulizie della fattoria in determinate occasioni stabilite
durante l'anno" (AA.VV., "Storia di Pistoia", Vol. IV,
Le Monnier, Firenze, 2000, p. 443)
SITUAZIONE BOLOGNESE NELLA PRIMA PARTE DEL XX SECOLO
"Il colono, nel suo contratto col proprietario, doveva sottostare,
fino a pochi anni fa, ad alcuni patti, appendizi o obblighi, in confronto
del diritto accordategli di allevare polli, qualche maiale, far legna
ecc. I patti, per solito, lo impegnavano a portare al padrone, in epoche
stabilite, le onoranze, vale a dire frutta, uova, capponi, ed anche un
dolce: al capp; e lo obbligavano a far bucato, a scavare annualmente un
certo numero di metri di fosse per le viti, a fare alcune carreggiate
ecc. Ora invece, le onoranze, sono ridotte ai polli ed alle uova, e gli
obblighi, assai diminuiti cariano un po' da luogo a luogo" (G. TREBBI
- G. UNGARELLI, "Costumanze e tradizioni del popolo bolognese",
Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1995 (riproduzione anastatica dell'originale
del 1932), pp. 65 - 66)
Circa l'origine del termine 'angheria' sono due le ipotesi che si confrontano:
la 'germanica' e la 'greca'.
L'ipotesi 'germanica' fa discendere il termine angheria da angar (terreno,
prato) a sua volta originato dal tema germanico 'angra' (pastura, terreno
a pascolo, prato, terra non arata per i cavalli e i maiali'. Su questa
base anche il tedesco anger e il norreno angr. (cfr. N. FRANCOVICH ONESTI,
"Vestigia longobarde in Italia", Artemide Edizioni, Roma, 2000,
p. 60)
L'ipotesi 'greca' vuole il termine derivato da un greco 'angareia' a sua
volta generato da un persiano 'angaros' con il significato di messaggero,
staffetta del re di Persia, il quale aveva l'autoritàdi requsire
uomini, animali, viveri e quant'altro risultaase necessario per la sua
missione. Il termine sarebbe così passato ai Longobardi e alla
lingua italiana col significato di sopruso e vessazione (cfr. N. RAUTY,
"Il Regno longobardo e Pistoia", Società Pistoiese di
Storia Patria, Pistoia, 2005, p. 105). La spiegazione 'greca' è
la stessa che ritroviamo in Devoto (Avviamaneto all'etimologica Italiana)
in Cortellazzo e Zolli(DELI), in Pianigiani e in numerosi altri autori
Da parte nostra sposiamo totalmente l'ipotesi 'germanica' poiché
risulta molto più semplice, molto più logica e storicamente
accettabile.
AGRICOLTURA
Dell'agricoltura longobarda sono sopravissuti (almeno fino in epoca recente)
alcuni usi quali:
a) la roncatura come ben esemplificato dallo storico pistoiese Natale
Rauty: "Due esempi di piccole unità poderali nell'alta val
d'Ombrone (Pistoia) ancora interamente circondate da bosco, che in epoche
passate erano ricavate dal disboscamento di aree forestali, secondo l'antico
sistema longobardo" (commento a due foto pubblicate a pagina 110
del libro N. RAUTY, "il Regno Longobardo e Pistoia", Società
Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2005);
b) la 'vigna cum clausura' (un sistema che prevedeva di circondare le
piccole vigne delle zone collinari con una siepe di fasci arbusti spinosi
per impedire il furto dell'uva matura). Questo sistema già menzionato
in carte dell'VIII secolo rimase in uso nel pistoiese almeno fino alla
seconda guerra mondiale (cfr. Ibid. p. 195)
MANOSCRITTI
Anche se apparentemente scontato ci pare opportuno ricordare che tra le
sopravvivenze longobarde e germaniche relative alla nostra area di interesse
ci sono anche i documenti archivistici. La diplomatistica costituisce
peraltro una risorsa fondamentale per comprendere lo sviluppo sia della
lingua italiana in generale che, in particolare, dei nostri dialetti:
"I materiali longobardi possono dunque recare tracce di fenomeni
che interessano anche la filologia romanza e la storia della lingua italiana
e dei suoi dialetti, proprio perché offrono qualche visione di
un periodo in cui il latino legale e notarile, benché a tratti
fortemente volgarizzato, ancora tenderebbe a non fare emergere formazioni
troppo volgareggianti, derivazioni, suffissi e tendenze fonetiche locali,
attribuibili al nascente neolatino; queste trovano invece tramite i nomi
propri e le voci germaniche più facile via d'accesso alla pagina
scritta. Inoltre nei termini di origine germanica si osservano quelle
antiche formazioni flessionali deboli in -an che hanno contagiato o hanno
contribuito al tipo morfologico tardo latino in -a, -anis (cfr. barbane,
Fortes, -ene) che è bene inquadrare e confrontare con le parallele
voci germaniche e longobarde (tipo aldiane, Audane, Zottani, Zabanis)"
(N. FRANCOVICH ONESTI, "Vestigia longobarde in Italia", Artemide
Edizioni, Roma, 2000, p. 49).
Per quanto riguarda la nostra area di interesse i documenti longobardi
confermano la tendenza locale a formare derivati diminutivi col suffisso
di origine anaria - ligure (e poi latina) "-olo" (per l'origine
ligure del suffisso cfr. N. RAUTY, "Storia di Pistoia", Le Monnier,
Firenze, 1988, p. 12 e per la presenza del suffisso nei testi longobardi
nord toscani cfr. N. FRANCOVICH ONESTI, "Vestigia longobrde in Italia",
op. cit., p. 49), suffisso che è giunto integro fino a noi (per
esempio a San Mommè: conigliolo, formicola, ragnolo, vispolo etc.).
UNITÀ DI MISURA
Tra le unità di misura ancora ricordate dai pistoiesi più
anziani sopravvive la coltra (corrispondente all'incirca alla metà
di un ettaro). Tale unità di misura risale alla dominazione longobarda
come ci illustra il seguente passo: "Non è certo in quale
misura gli antichi romani abbiano trasformato il territorio agricolo,
ma è invece sicura la permanenza di una unità di misura
agraria, la coltra ( quadrato con il lato di circa 71 metri) introdotta
dai longobardi" (COMUNE DI PISTOIA, "Piano Strutturale - Relazione
A1", p. 13). Sempre di origine longobarda è lo stioro (detto
anche stiolo per inversione delle liquide l > r), unità di misura
corrispondente a un quarto di coltra.
Circa queste due unità di misura scrive lo storico pistoiese Natale
Rauty:
"Un altro segno dell'intervento dei Longobardi nell'organizzazione
agricola del territorio pistoiese è fornito dall'adozione di un
nuovo sistema di misure lineari e di superficie che ebbe come base il
piede di Liutprando, documentato a Pistoia fino al XIII secolo ed il cui
ragguaglio è stato determinato in circa 49 centimetri. Il piede
di Liutprando aveva un multiplo, la pertica, pari a dodici piedi; il quadrato
con lato di dodici pertiche corrispondeva a una "coltra", misura
in base alla quale furono suddivisi i campi nei nuovi terreni messi a
coltura... E' possibile ... che il nuovo piede longobardo sia derivato
proprio dalla suddivisione dell'agro pistoiese centuriato (i cui lati
erano di 240 piedi romani) in 144 parti (12 pertiche di 12 piedi), secondo
un rapporto strettamente duodecimale" (op. cit., p. 138)
E ancora:
"La coltra, suddivisa in quattro staiori (o stiori) è una
misura sopravissuta fino ai giorni nostri nella campagna pistoiese, dove
viene ancora usata dai contadini secondo il ragguaglio approssimativo
di mq 5000, cioè mezzo ettaro, contro la misura esatta di 5064,23
mq" (ibid, p. 138).
In alcune aree rurali pistoiesi lo stesso stioro, a sua volta, è
suddiviso secondo un rapporto duodecimale: "12 pugnori equivalgono
a un panoro 12 panori a uno stioro" (P. NESTI, "Villa c'era",
Pro Loco Piteccio, Pistoia, 2004, p. 277).
Misura medioevale Misura moderna
coltra = 0,5 ettari coltra = 0,5 ettari
stioro = 1/4 di coltra stioro = 1/4 di coltra
pertica = 1/12 del lato di una coltra panoro = 1/12 di stioro
piede di liutprando = 1/12 di pertica pugnoro = 1/12 di panoro
Chi è avvezzo ai calcoli matematici si sarà
accorto che il pugnoro non è altro che un multiplo del piede di
Liutprando. Infatti:
1 coltra = 5064,23 mq - 1 piede di Liutprando = circa 49 cm
Pertanto:
1/4 di coltra = 1 stioro = 5064,23 / 4 = 1266,06 mq
1/12 di stioro = 1 panoro = 1266,06 / 12 = 105,50 mq
1/12 di panoro = 1 pugnoro = 105,50 / 12= 8,79 mq
radice quadra di un pugnoro = SQR (8,79) = 2,96 m
1/12 della radice quadra di un pugnoro = 2,96 / 12= 0,247 m = 24,7 cm
1 piede di Liutprando = 24,7 x 2= 49,4 cm
E, al contrario, possiamo osservare che dalla coltra possiamo giungere
al piede di Liutprando nel modo che segue:
radice quadra di una coltra = SQR (5064,23) = 71,163 m (un lato di coltra)
1/12 di lato della coltra = 71,163 /12 = 5,930 m (una pertica)
1/12 di pertica = 5,930 / 12 = 0,494 m = 49,4 cm (un piede di Liutprando)
Pertanto la coltra non è altro che il piede di Liutprando moltiplicato
per 144 ed elevato al quadrato, mentre lo stioro è la metà
del piede di Liutprando moltiplicato per 144 ed elevato al quadrato.
Da un punto di vista geometrico il rapporto tra pugnoro e piede di Liutprando
è dimostrato dal rapporto tra stioro e coltra: una coltra è
un quadrato la cui superficie è composta da quattro stiori, ciascuno
dei quali costituito da quattro lati di identica lunghezza e pari ogniuno
alla metà di ciascun lato della coltra. Pertanto i sottomultipli
(lineari e di superficie) di coltra e stioro sono sono tra loro correlati.
Clicca sull'Approfondimento relativo alle unità di
misura di superfici e lunghezze
Le informazioni ricavate sulle unità di misura pistoiesi sembrano
altresì confermare l'ipotesi, già sostenuta da qualcuno,
che vuole come base di parte dell'antica matematica longobarda il sistema
duodecimale in luogo del sistema decimale (cfr. NOTIZIARIO CAO - Club
Alpino Operaio di Como - Anno XXX, n. 2, Aprile 2002, p. 4); è
peraltro probabile che il sistema numerico degli antichi germani sia evoluto
in talune popolazioni germaniche da una base decimale ad una base duodecimale
("[il]germanico *hudan, che in origine doveva significare 'cento',
ha asunto in taluni casi il valore di 120" (A. Scaffadi Abbate, "Introduzione
allo studio comparativo delle lingue germaniche antiche", p. 459)).
In ogni caso chi scrive è dell'avviso che il sistema di misurazione
terriera di tutti i popoli germanici fosse basato sul sistema duodecimale,
sistema duodecimale che sopravvive (oltre che nel sistema di misure pistoiesi)
ancora nel sistema anglo - americano: "il mondo anglosassone, che
a lungo ha mantenuto una serie di propri sistemi di misura diversi da
quelli di altre nazioni (tra cui quello duodecimale - divisione in 12,
il piede e il pollice)" (http://www.ilpostalista.it/coordriggi4.htm).
E, in effetti, un sistema duodecimale ha certi vantaggi rispetto a quello
decimale. Mentre dieci può essere diviso esattamente solo per due
e cinque, dodici può essere diviso per due, tre, quattro e sei.
Il sistema duodecimale, per queste sue caratteristiche, era assai più
diffuso in antico di quanto oggi si tenda ad immaginare (anche se poi,
nell'uso comune, sopravvive ancora il termine "dozzina") e si
ritrovava (oltre che nei popoli germanici come abbiamo cercato di dimostrare)
anche tra gli antichi Romani (il loro sistema matematico era additivo,
decimale e quinario per la parte intera, duodecimale per la parte frazionaria,
poiché l'unità semplice, detta axis, era divisa in dodici
once)e, perfino, nel sistema monetario attico. Tornando in ambito germanico
si direbbe che anche il sistema monetario dei Vandali fosse fondato sulla
matematica dodecimale: "I re Vandali, a partire da Gunthamundo, emettono
solo monete d'argento e bronzo. Le monete d'argento sono di una, mezza
e un quarto di siliqua" (N. FRANCOVICH ONESTI, "I Vandali",
Carocci, Roma, 2002, p. 52). I rapporti di 1/1, 1/2, 1/4 sono basati su
equivalenze strettamente dodecimali (dividendo 12 per 4 si ottiene un
numero intero, mentre dividendo 10 per 4 si ottiene un numero frazionario).
Questa constatazione sembra confermare la nostra asserzione relativa all'importanza
che la matematica duodecimale aveva per i popoli germanici (longobardi
e goti compresi).
Sempre in area pistoiese sopravvive (vedi Saturnana) un'unità di
misura delle uova basata anch'essa sul sistema dodecimale: la serqua (12
uova). Una filastrocca del luogo recita: "la mi' padrona era tanto
bona la mi dè una serqua d'ova" (R. NEROZZI, "... tre
civette sul comò", Editrice CRT, Pistoia, 2003, p. 39). Il
termine serqua è di origine latina (lat. siliqua > baccello),
ed è derivato da una moneta romana d'argento di epoca costantiniana
(la siliqua appunto) con valore di 1/24 di aureo (solidus), ma è
interessante osservare come anche l'unità di misura monetaria di
popoli germanici come i Vandali, ostrogoti e i Longobardi (APPUNTO) fosse
basata proprio su una moneta d'argento detta siliqua e come il sistema
monetario ostrogoto e longobardo fosse dodecimale. La moneta longobarda
più importante è il Tremisse, ossia terzi del Solido aureo,
alla quale i longobardi accompagnavano una moneta d’argento detta
Siliqua. Le carte, i diplomi e la legislazione di questo popolo, infatti,
ci riferiscono che è stato utilizzato il solido, il tremisse e
anche la siliqua (Nell'Editto di Rotari si legge: "De furtis. Si
quis liber homo furtum fecerit et in ipsum furtum temptus fuerit, id est
fegangit: usque ad decem silequas furtum ipsum sibi nonum reddat, et conponat
pro tali turpe culpa sol. octuginta, aut animae suae incurrat periculum.
").
Una ulteriore traccia di unità di misura longobarda può
essere rintracciata nel vocabolo pistoiese scafarda (grande quantità,
soprattutto di cibo contenuto in un grosso recipiente). La voce pistoiese
discende infatti dallo "scaffilum", una antica unità
di misura terriera usata dai longobardi e al tempo stesso la misura longobarda
di capacità dei cereali (cfr. N. FRANCOVICH ONESTI, "Vestigia
Longobarde in Italia", Artemide Edizioni, Roma, 2000, p. 115). Ancora
gli Stauti dell'Opera di San Jacopo in Pistoia del 1313 stabilivano che
la misura per la vendita della calcina era lo "scaffiglio":
"[A]ncora ordiniamo ke' fornacciari siano tenuti di fare li mattoni
e li teoli a misura della città di Pistoia, la quale è nella
sacristia, e la misura della calcina debbia essere di mille libre p(er)
ciaskeduno scafiglo" (citato in L. GAI - G. SAVINO, "L'Opera
di S. Jacopo in Pistoia e il suo primo statuto in volgare (1313)",
Pacini Editore, Pisa, 1994, p. 200. cfr. anche Bullettino Storico Pistoiese,
Anno CVI - Terza Serie XXXIX (2004), p. 190). In effetti almeno fino al
XVI secolo sopravvisse a Pistoia un'intero sistema per la misura di capacità
degli aridi di origine longobarda e che il Rauty riassume così:
- Omina (cardine del sistema)
- Quartina (mezza omina)
- Scaffiglio (dodici omine)
E' ancora il Rauty, parlando dello Scaffiglio, ad informarci che:
"Il lemma ha sicura origine germanica e si lega quindi, insieme al
piede di Liutprando, ad un sistema metrico che dovrebbe risalire almeno
al secolo VIII ed all'influenza longobarda nell'economia agricola pistoiese"
(N. RAUTY, "Pistoia. Città e territorio nel medioevo",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 212)
Rimanendo in tema di unità di misura longobarde non andrà
poi dimenticata la spanna: la spanna (che peraltro sopravvive anche nel
toponimo Spannarecchia) è la misura ottenuta misurando la mano
distesa dalla punta del pollice alla punta del mignolo (per estensione
vale anche come piccola quantità e breve misura). Stando alla lezione
del Gamillscheg anche i toponimi e idrotoponimi Agliana e Agna derivano
da una antica misura germanica (cfr. Alina = misura di un braccio).
Tutt'altro che certa, invece, l'origine longobarda per un'altrà
unità di misura utilizzata a Pistoia almeno fino ai tempi della
riforma leopoldina del 1782: "Non si conosce l'origine del 'braccio
a panno': il fatto che la sua misura (cm 61,28) sia molto vicina a quella
del 'piede di Liutprando' aumentata di un quarto (1,25x49,09=61,36) potrebbe
essere una semplice coincidenza" (N. RAUTY, "Pistoia. Città
e territorio nel medioevo", Società Pistoiese di Storia Patria,
Pistoia, 2003, p. 204).
IL MONDO DELL'ARTE
Tralasciando i pure importanti lasciti longobardi diretti presenti nel
pistoiese (XVII) possiamo dire che numerose rimangono le tracce di una
cultura germanica nell'arte locale. I fratelli pistoiesi Gruamonte e Deodato
hanno perpisquamente connotato la fisionomia sia scultorea che architettonica
della città. Inoltre molte opere di artisti minori locali (testimoniati
ad esempio da certi capitelli con coronamento antropomorfo nella Chiesa
di Sant'Andrea e da alcuni mostruose protomi ferine nei coronamenti della
Chiesa di San Bartolomeo in Pantano, oppure da quel maestro Enrico che
ha istoriato i capitelli degli stipiti della facciata della Chiesa di
Sant'Andrea) attestano una indiscutibile parentela nordica, non inferiore
a quella di Wiligelmo e dei maestri che scolpirono le statue e i rilievi
che ornano il duomo di Modena.
Opere che meriterebbero un approfondimento sono anche le numerose colonne
custodite all'interno di chiese e cripte (ad esempio cripta di San Salvatore
in Agna, Cripta Badia di San Baronto) quasi sempre coronate da capitelli
con motivi grossolanamente fitoformi. Se esiste un rapporto tra figura
e figurato (per il concetto siamo costretti a rimandare all'introduzione
ad una edizione della Gerusalemme Liberata pubblicata nel lontano 1665:
T. TASSO, "Il Gioffredo overo Gierusalemme Liberata", Gio Battista
Castori, Venezia, 1665, p. 12) allora le colonne stesse sono l'immagine
'vivente' di quanto è sopravvissuto nell'arte degli antichi culti
arborei germanici (es: il 'sacra arbor" longobardo e il Sassone Irminsul
che sintetizzava l'immagine dell'albero del mondo). Anche la colonna finemente
lavorata con motivi floreali e creature mostruose della Chiesa di San
Pier Maggiore ora nel cortile interno del palazzo del Municipio, per la
ricchezza di motivi floreali, appare quasi una piccola colonna sacra.
Restando nell'Alto Reno Pistoiese ricordiamo, invece, la protome a testa
di lupo dell'architrave della Chiesa di Spedaletto da alcuni ritenuta
una testa di guerriero: si tratta ,in effetti, di una interessante curiosità
dato che tra i guerrieri longobardi Paolo Diacono ricorda alcuni "cinocefali".
E per concludere nell'Alto Reno Bolognese andrà ricordata la lastra
del suonatore di corno provvisto di lancia di epoca romanica, ed opera
di un ignoto scalpellino locale, proveniente dalla Chiesa di Verzuno (fraz.
Camugnano), ma con evidenti elementi barbarici ampiamente giustificabili
in un ambiente ricco di persistenze arcaiche fino all'età moderna.
Paolo Bacchi, in un interessante articolo pubblicato sul numero 16 della
rivista Savena Setta Sambro (n. 16, 1999, pp. 12 ss) vede nella figura
del suonatore di corno una raffigurazione del San Michele / Odino psicopompo
(cioè guida delle anime tra mondo dei vivi e mondo dei morti).
Lo stesso Bacchi ritiene di potere individuare nella lancia la lancia
di Odino (detta Gungnir) e nel corno il corno di Odino (detto Heimdllar).
Favorevole ad attribuire alle manifestazioni artistiche dell'Alto Appennino
Bolognese una sopravvivenza della cultura germanico - longobarda è
anche lo studioso Carlo degli Esposti (cfr. AA.VV., "Il Mondo di
Granaglione", Tamari Editore, Bologna, 1977, pp. 145 -148).
Alla testimonianza culturale di un patrimonio germanico e germanizzante
nelle opere scultoree ed architettoniche del territorio pistoiese e del
comprensorio alto appenninico bolognese non sarà, peraltro, estranea
la presenza dei "mastri comacini" [comacini = dalla città
di Como ma anche dal prefisso latino "cum" + germanico "makjon"
(muratore)] che, spesso, non solo lavorarono in questi luoghi, ma finirono
per risiedervi. E' tutt'altro da scartare l'ipotesi che vuole vedere nelle
rappresentazioni celto - germaniche del Sole delle Alpi e della triskel
presenti in Alto Reno e nel pistoiese la sopravvivenza della cultura dei
mastri comacini che operarono in queste zone (andrà comunque ricordato
che gli etruschi già usavano il sole delle alpi, che la triskel
è riportata in monete licie del VI secolo a.C. e che entrambi i
simboli sono presenti in manufatti provenienti dalla città greco
- campana di Cuma)
Nel campo della pittura ci limitiamo a ricordare - oltre all'esistenza
una ricca iconografia di Santi cari ai Longobardi (San Bartolomeo in primo
luogo) attestata fino ai giorni nostri - i resti di un bell'affresco medioevale
ancora conservato nella Chiesa di San Giovanni Fuoricivitas e che rappresenta
San Michele nell'atto di uccidere il drago dell'Apocalisse. Anche questo
tema è chiaramente germanico - longobardo dato che il tema cristiano
dell'arcangelo Michele quale vincitore del drago diabolico (Apocalisse
12, 7 - 9) ripropone il tema dell'eroe germanico uccisore del drago (vedi
Beowulf, Sigurdhr, Sigfrido). E' allora del tutto evidente che i Longobardi,
per influsso della loro tradizione nazionale germanica dell'eroe vincitore
del drago, elessero San Michele Arcangelo come loro rappresentante anche
nella iconografia sacra. E rimanendo in tema di San Michele Arcangelo
non sarà inopportuno menzionare una pagina tratta dal sito web
del Comune di Pistoia:
"IL CULTO PER SAN MICHELE ARCANGELO A PISTOIA Pistoia di cui è
nota l'importanza in età longobarda occupa un posto di rilievo
nel panorama della diffusione del culto per l'Arcangelo Michele essendo
direttamente legata alla monarchia che aveva assunto l'Arcangelo a suo
patrono. San Michele in Forcole, la cattedrale che tra i Santi del suo
lungo titolo annovera san Michele e S. Michele in Cioncio testimoniano
la diffusione in città del culto per l'Arcangelo. Guido da Como
scolpì per quest'ultima chiesa il san Michele con il Drago. La
grande scultura un tempo sull'architrave del portale raffigura l'Arcangelo
con le ali spiegate, il dragone sotto i piedi e il globo nella mano sinistra.
La mano destra, di cui oggi è privo, teneva la lancia con la quale
sconfisse il drago secondo la più diffusa iconografia." (http://www.comune.pistoia.it/conoscere/scoperta/scoperta_23.htm)
Per concludere, infine, ricorderemo due lasciti longobardi la cui diffusione
è andata ben oltre la stessa penisola italiana: le cripte e i campanili.
I campanili, infatti, furono introdotti nell'architettura occidentale
proprio dai Longobardi, come i (menhir) e gli obelischi, essi rappresentano
il tema maschile, la virilità puntata verso il cielo. Proprio all'epoca
longobarda risale la base del campanile della Cattedrale di Pistoia poi
completato nel XIII secolo da Giovanni Pisano. Nell'architettura religiosa
longobarda è, poi, di grande importanza la creazione della (cripta),
sacello sotterraneo ubicato nella parte più sacra dell'edificio,
che corrisponde all'elemento femminile, come (ventre) depositario di ogni
segreto e di ogni fertilità.
CARATTERI GERMANICI NELLA POPOLAZIONE LOCALE
In una opera fondamentale sulla montagna bolognese lo storico felsineo
Arturo Palmieri scrisse nel 1929: "Questa regione [la montagna] non
fu nel Medio Evo una semplice espressione geografica. Fu qualche cosa
di più. La popolazione in essa compresa ebbe, e manitene ancora,
benché si rendano ogni giorno più confusi, caratteri etnici,
che la separano dalle circostanti. Ha anzitutto un dialetto proprio. Gli
abitanti, eccetto si intende quelli che occupano gli estremi limiti, parlano
uno stesso vernacolo, il quale si distingue non solo dal romagnolo, dal
toscano e dal modenese, ma da quello stesso parlato a Bologna e nei sobborghi...
I caratteri somatici hanno pur essi alcune particolarità. Il tipo
biondo è proporzionalmente più esteso che nella città
e nel piano" (A. PALMIERI, "La montagna bolognese del medioevo",
Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1981, p. 4). Tale situazione è
registrata anche per il pistoiese a conferma dei rapporti fortissimi che
l'Alto Reno ebbe con la cittadina Toscana: "La coesistenza di due
distinti ceppi etnici nel contado pistoiese era avvertibile ancora agli
inizi di questo secolo [il XX], prima dei grandi movimenti migratori interni
del secondo dopoguerra: in alcune zone, soprattutto di montagna, prevalgono
gli individui con caratteri mediterranei...; in altre zone, specialmente
in pianura erano presenti caratteri somatici germanici" (N. RAUTY,
"Storia di Pistoia", Vol. I, Le Monnier, Firenze, 1988, p. 137).
Ancora oggi è possibile leggere su Camugnano: "Se si guarda
il colore degli occhi e dei capelli della gente camugnanese si noterà
che il tipo biondo è superiore alla media di tutti gli altri centri
della montagna. Significa che qui i Longobardi hanno avuto insediamenti
massicci. Molti nomi del luogo hanno radici longobarde, come quelli in
-ingo, -engo, -endo e -enda. Per esempio Garisendo viene da 'gair', lancia
e da 'sind', viaggio" (F. RAFFAELLI - F. RAFFAELLI, "Passeggiate
bolognesi", Newton & Compton, Roma, 2004, p. 390).
Che, in generale, la Toscana sia una delle Regioni più "germanizzate"
d'Italia è d'altra parte un fatto noto e per taluni fu proprio
la Toscana la terra di elezione dei Longobardi:
"Anche un autore dell'autorità di Gioacchino Volpe ammette
che la Toscana, per la sua posizione, sia stata fra le regioni d'Italia
quella più fittamente popolata da Goti, Longobardi e Franchi. In
particolare la densità numerica degli stanziamenti arimannici autorizza
molti storici a parlare di «Tuscia Longobarda», mentre noi
provocatoriamente ci domandiamo nel titolo, visto che anche l'egemonia
politica si trovava nelle mani dei conquistatori, se la denominazione
di "Lambardia" non sarebbe più appropriata per la Toscana
che per la regione lombarda" (Gualtiero Ciola).
Andrà ancora osservato che i Toscani, assieme ai Veneti ed ai Friulani,
detengono il primato dell’altezza corporea fra gli abitatori di
tutta la penisola italiana.
A conferma dell'importanza e della persistenza di una identità
germanico - longobarda nei territori di nostro interesse basterà
ricordare che ancora nel XII secolo a Pistoia era frequente l'applicazione
delle norme giuridiche dettate dal Re longobardo Rotari quali il launechild,
il mundium e il morgengab (N.RAUTY, "Storia di Pistoia", Vol.
1, cit., p. 140). Il guidrigild peraltro risulta godere di ottima salute
ancora alla fine del XIII secolo (N. RAUTY, Op.Cit., p. 145) e anche il
mundualdo è ampiamente attestato nel XIII secolo in Alto Reno (Savena
Setta Sambro, n. 25 (2003), pp. 3-9). Anche successivamente sono innumerevoli
i documenti che attestano la professione di legge longobarda. La sopravvivenza
di queste tradizioni, così contrarie alla tradizione giuridica
- romana, ben oltre la fine del regno longobardo la dice tutta sulla volontà
dei "germanici" che hanno abitato queste terre di preservare
la propria idenità. Tuttavia, nel corso dei secoli, si arrivò
pian piano ad una assimilazione tra Longobardi e "Romani" (XVIII):
è proprio il già citato Gioacchino Volpe a sostenere che
in Toscana si verificò, attorno al X secolo, una vera e propria
fusione tra italici e stranieri (cfr. M. ZUCCHELLI, "Lo statuto di
Montieri del 1500", Tesi di Laurea in Giurisprudenza, Anno Accademico
1997/98, Università di Pisa, cap. I) (XIX) . E questo atteggiamento
di consapevole identità senza separazioni è gravido di eventi
positivi:
"La Toscana fu il paese d'Italia che più compiutamente d'ogni
altro eliminò il feudalesimo ed ebbe i più evoluti Comuni
di contado; e prima mise al sole i frutti della lunga elaborazione interiore,
le forme dell'italianità nell'arte e nella lingua" (G. VOLPE,
citazione riportata in M. ZUCCHELLI, op. cit.)
IL SUPERSTRATO GERMANICO NEI TOSCANISMI PRESENTI IN ALTO RENO
Il contributo più originale alla cultura dei Comuni Altorenani
causato dalla presenza dei popoli germani (e in particolare dei longobardi)
è costituito tuttavia, a nostro modesto avviso, dai particolari
dialetti toscaneggianti (noi li definiamo "gallo toscani") parlati
tutt'oggi dalle persone più anziane (clicca qui per saperne di
più).
Considerato, infatti, che: 1) i longobardi giunsero in queste montagne
partendo dalle loro basi in Toscana; 2) per secoli questi territori appartennero
alla "Iudicaria" Pistoiese; 3) le schiatte longobarde di Bargi
e di Stagno (signori di gran parte dell'Alto Reno emiliano e toscano)
furono fedelissimi alla causa pistoiese (XX) 4) già a partire dalla
prima metà del VII secolo i longobardi erano ormai profondamente
latinizzati (cfr. J. JARNUT, "Storia dei Longobardi", Einaudi,
Torino, 2002, pp. 78, 105).
Riteniamo che ci siano elementi sufficienti per sostenere che la componente
toscana dei dialetti, e della cultura, altorenana sia, paradossalmente,
la più importante vestigia germanica sopravissuta fino ai nostri
giorni nelle alte valli del crinale appenninico emiliano (sull'origine
'longobarda' dei dialetti 'pistoiesi' dell'Alto Reno vedi anche P. GUIDOTTI,
"Il Camugnanese", CLUEB, Bologna, 1985., pp. 89 - 90, sulle
differenze culturali tra la porzione dell'Appennino bolognese "germanizzato"
dai pistoiesi e le altre realtà appenninico - bolognesi cfr. R.
ZAGNONI, "Il Medioevo nella montagna tosco-bolognese", Gruppio
di studi Alta Val del Reno - Nueter, Porretta Terme, 2004, p. 232). Questa
risultanza pare peraltro confermare la posizione di illustri linguisti
quali Walther von Wartburg ed Eduard Boehmer che individuano nel superstrato
germanico la causa delle differenziazioni dialettali nei paesi di lingua
romanza (cfr. C. TAGLIAVINI, "Le origini delle lingue neolatine",
Patron Editore, Bologna, 1999, p. 433)
UN PATRIMONIO IN PERICOLO
Quello che abbiamo registrato in queste pagine è una testimonianza
di quanto oggi (anno 2004) sopravvive nel pistoiese e nell'Alto Reno del
lascito germanico e longobardo. Il futuro è però nero dato
che la stragrande maggioranza delle testimonianze lessicali, dialettali,
e culturali in genere, è affidata alla memoria delle persone più
anziane.
Andando avanti di questo passo riteniamo che, entro i prossimi dieci (o
al massimo venti) anni, il lascito longobardo - germanico sarà
definitivamente compromesso.
"tondo" di Poggiolforato (Alto Reno)
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(I) l'elenco dei termini di origine longobarda o germanica presente in
italiano e nelle parlate dell'Alto Reno e del pistoiese è in realtà
assai lungo, e solo a titolo di mero esempio ricorderemo anche:
hanka (=anca) con esito "anca"/ rauffen (=arruffarsi) con esito
"arruffare" / bald (=ardito) con esito "baldo"/ bara
(=lettiga) con esito bara/ birhoffian (= schiamazzare) con esito baruffa
/ ber+lokke (=richiamo di caccia) con esito berlicche (= diavolo)/ blank
(= bianco lucente) con esito bianco/ fazzjo (=straccio) con esito fazzoletto/
bukon (=lavare con la liscivia) con esito bucato/ gram (=misero) con esito
gramo/ kripja (= mangiatoia) con esito greppia/ grimmitha (= che fa paura)
con esito grinta/ waidanjan (= pascolare) con esito guadagnare/ wankja
(= guancia) con esito guancia/ bastan (= cucire, dare punti) con esito
imbastire/ mundwald (= canaglia ma anche tutore poiché collegato
al tema mund > protezione) con esito manigoldo/ mëlma (= melma)
con esito "melma"/ milzi (= milza) con esito milza/ rìhhi
(= ricco) con esito ricco/ rann (= gocciolatura) con esito ranno/rukka
(= rocca per filatura a mano) con esito rocca/ wahtari (= guardiano) con
esito sguattero /spahhan (= fendere) con esito spaccare/ raubòn
(= bottino) con esito rubare/ hrùzzan (= russare) con esito russare/
skaf (= armadio senza sportelli) con esito scaffale/ snell (=veloce) con
esito snello/ sterz (= manico dell'aratro) con esito sterzo/ skinka (=femore)
con esito stinco/ tappa (= tappo) con esito tappo/ tauffjan (= tuffare)
con esito tuffare/ bàra+onda (= baraonda) con esito baraonda/ supfa
(= polenta tenera) con esito zuppa e altri termini ancora che non andremo
a riportare, frisk (fresco) con esito fresco. Talvolta il vocabolo nel
dialetto locale assume un significato leggermente discordante dall'italiano:
il treppiese e sammomeano guercio (dal longobardo dwerk) non indica lo
strabico, ma il cieco. Resti di parole germaniche possono essere individuate
anche in espressioni d'uso quotidiano, un esempio tipico è rappresentato
dalla locuzione "a ufo" (senza pagare) forse collegata al germanico
ufjô col significato di abbondanza.Per quanto riguarda il raro vocabolo
ranno ci permettiamo una lunga citazione da una e - mail ricevuta da Laura
Battistini di Lentula (abitato del Comune di Sambuca Pistoiese) e relativo
a un altro vocabolo di uso locale: "céneròne: pezzo
di tela grezza dove veniva messa della cenere del camino e veniva poi
collocato in una conca di terracotta (nella zona vi erano diverse fornaci),
a mo' di "infuso", insieme a tanta acqua bollente (= il RANNO).
L'acqua veniva cambiata diverse volte, tramite un foro in fondo, di lato
alla conca. La conca veniva coperta con una grossa lastra di pietra, Nella
conca venivano immerse le robuste lenzuola di canapa (nostrana) coltivata
e tessuta nella zona." In alcuni casi una parola germanica viene
reintrodotta solo di recente nel parlare quotidiano, ma appare ai parlanti
come d'uso locale ininterrotto: è il caso di spalto (parola sopravissuta
solo nei registri alti fino a tempi recenti) ed oggi d'uso comune grazie
ai giornalisti sportivi. In altri casi, al contrario, la parola germanica
reintrodotta nel parlare quotidiano di recente è avvertita come
non locale: E' il caso di faida (longobardo faihida) sentita come voce
del Sud Italia, ma introdotta nel parlare quotidiano da una lirica di
Carducci ("Faida di Comune"). Altre, ancora, pervengono direttamente
da altri dialetti della penisola italiana e sono di più o meno
recente introduzione (è il caso della "pizza napoletana"
la cui etimologia è stata nel 1979 ricondotta alla stessa radice
germanica del tedesco "bissen") oppure provengono da altre lingue
romanze e, in particolare, dal francese (è il caso, ad esempio,
di "giardino" derivato dal francese "jardin" a sua
volta prestito dal franco gart (tedesco garten)). Altre, infine, sembrano
destinate a rimanere nel vocabolario come termini storici: aldio e aldione
(semilibero), arimanno (exercitalis), gasindio (consigliere e coadiutore
del re), 'guidrigildo' (prezzo di composizione per le offese private),
'mundio' (tutela), sculdascio ('funzionario preposto a una circoscrizione
territoriale')
(II) Al fine di comprendere appieno l'importanza e la quantità
dei germanismi e longobardismi testimoniati tutt'oggi nell'Alto Reno e
nel pistoiese basterà ricordare che: 1) della presenza di colonie
valdesi nell'area calabrese che fa capo a Mormanno, Laino, Morano e paesi
circonvicini sono sopravissuti al 1930 non più di 20 vocaboli;
2) della presenza slava nel Gargano non rimangono altro che 19 vocaboli;
3) che non un solo vocabolo è rimasto a testimoniare nella parlata
locale le colonie slave che portarono alla fondazione di San Vito degli
Schiavoni (oggi San Vito dei Normanni) in provincia di Brindisi. Per saperne
di più si consiglia di leggere G. ROHLFS, "Studi e ricerche
su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni, Firenze, 1997, pp. 220 -
224, 349 - 356).Relativamente a quella parte del patrimonio lessicale
longobardo e germanico che i dialetti altorenani hanno in comune col bolognese
ma non con il pistoiese si evidenzia, invece, quanto segue: 1) effettivamente
una qualche presenza longobarda è attestabile anche per il bolognese
a seguito della conquista di Bologna nel 727; 2) diversi termini del lessico
bolognese, tuttavia, si ritiene possano essere considerati dei prestiti
dai dialetti vicini. A quest'ultima categoria dovrebbe essere ascritto
il termine bolognese "sprucajen" (bella ragazza) dato che nei
dialetti altorenani troviamo uno "sprucaglino" (bambino) che
ci pare assai più consono all'originale sproh (rametto / germoglio).
(III) Personalmente registriamo con perplessità (sia pure non escludendola
in via definitiva) l'ipotesi avanzata da Paolo Bacchi su possibile origine
longobarda per il vocabolo altorenano e altopistoiese "stropello"
(= vetrice). Non è chiaro, infatti, come a partire da una radice
del tipo "stupalaz" (= confine) si possa arrivare ad indicare
una pianta. Circa l'ipotesi di Paolo Bacchi si rimanda alla pagina 19
della rivista bolognese "Savena Setta Sambro" (n. 24, 2003,
p. 19). Tuttavia l'ipotesi potrebbe apparire assai più probabile
se anziché da una voce stupalaz non si ricerchi l'origine del termine
in stapulaz (palo piantato)
(IV) Sergio Rovagnati scrive nella sua monografia sui Longobardi addirittura:
"Per quanto riguarda la lingua non sappiamo molto, perché
i nostri non misero mai nulla per iscritto nel loro idioma (a differenza
di quanto fecero i Goti con la Bibbia di Wulfila) e nelle poche tracce
rimaste nella loro lingua spesso è difficile distinguere gli elementi
realmente longobardi da quelli acquisiti da altre popolazioni, in particolare
dai goti" (S. ROVAGNATI, "I Longobardi", Xenia, Milano,
2003, p. 95).
E ancora:
"Ancora oggi, in molti casi, si ha difficoltà a distinguere,
nella toponomastica (specialmente nel settentrione) e nella lingua italiane,
gli apporti gotici da quelli longobardi" (Ibid., p. 98).
Mente in un'altra opera dedicata ai Goti asserisce che:
"Si deve tener presente che, dopo la sconfitta in Italia gli Ostrogoti
superstiti probabilmente non hanno di nuovo varcato le Alpi per disperdersi
o fondersi con altre popolazioni germaniche (nonostante quello che racconta
la tradizione). E' più probabile che la maggior parte di essi si
sia unita ai Longobardi, portando un bagaglio culturale e linguistico
e facendo sentire la propria influenza. Quindi oggi sarebbe difficile
distinguere alcuni dei vocaboli da loro usati" (S. ROVAGNATI, "I
Goti", Xenia, Milano, 2002, pp. 72 - 73).
A conferma di quanto scrive il Rovagnati non solo ricordiamo il già
citato passo del prof. Tagliavini, ma anche la banale constatazione che
non sempre l'assenza della seconda Lautverschiebung testimonia la non
longobardicità di una parola. La seconda Lautverschiebung, infatti,
non ha raggiunto il longobardo immediatamente e completamente e la presenza
di doppi come balla / palla, panca / banca lo dimostra ampiamente (cfr.
N. FRANCOVICH ONESTI, "Filologia germanica", Carocci, Roma,
2002, p. 150).
Per chiarire in cosa consiste la cosiddetta seconda Lautverschiebung riportiamo
un passo di un famoso manuale sulla lingua tedesca:
"Il termine 'tedesco antico' non designa una lingua unitaria, ma
piuttosto un insieme di dialetti riconducibili a due grandi raggruppamenti:
i dialetti alto - tedeschi, centro - meridionali, e quelli basso - tedeschi,
settentrionali. La distinzione poggia soprattutto (ma non esclusivamente)
su cospicue differenze di consonatismo. Infatti, mentre i dialetti basso
- tedeschi conservano il consonatismo di una fase precedente detta 'germanica'
(e per certi versi simili a quello dell'inglese e delle lingue nordiche),
i dialetti alto - tedeschi partecipano, sia pure in misura diversa, a
una grande innovazione, detta 'seconda mutazione consonantica' (zweite
Lautverschiebung) o 'seconda legge di Grimm' che modifica notevolmente
la loro fisionomia:
antico inglese: deop / antico sassone: diop / francone orientale: tiop
/ tedesco superiore: tiuf (profondo)
antico inglese: beorg / antico sassone: berg / francone orientale: berg
/ tedesco superiore: perg (monte)
antico inglese: pund/ antico sassone: pund/ francone orientale: pfunt/
tedesco superiore: pfunt (peso)
antico inglese: drincan/ antico sassone: drinkan/ francone orientale:
trinkan/ tedesco superiore: trinchan (bere)" (F. ALBANO LEONI - E.
MORLICCHIO, "Introduzione allo studio della lingua tedesca",
Il Mulino, Bologna, 1988, p. 259).
Per quanto attiene la fusione dei Goti con il popolo romano e col popolo
longobardo ci è stato obbiettato che dopo la guerra gotica non
rimase più alcun goto in Italia. Questa affermazione, francamente,
ci pare inaccettabile in quanto: 1) Procopio di Cesarea, in conclusione
alla sua "Guerra gotica" (IV, 35), ci dice che solamente i Goti
che decisero di non sottomettersi all'Imperatore lasciarono l'Italia;
2) nella seconda metà dell'VIII secolo sono ancora presenti in
Italia "civis" che vivono secondo la 'lex Gothorum' (P. GRIBAUDI,
"Sull'influenza germanica nella toponomastica italiana", Società
Geografica Italiana, Roma, 1902, p. 18); 3) gli studiosi sono concordi
nel ritenere che la maggior parte dei Goti decise di rimanere in Italia
assoggettandosi all'imperatore di Bisanzio (cfr. H. Wolfram, "I germani",
Il Mulino, Bologna, 2005, p. 100). In relazione al punto 3 ci pare opportuno
ricordare che già Pasquale Villari nel 1905 scriveva: "Così
molti di loro [i goti dopo la sconfitta definitiva subita contro l'esercito
Bizantino del 553] passarono le Alpi, andando a confondersi con altre
genti; non pochi si sparsero per le terre d'Italia con la speranza di
farsi dimenticare" (P. VILLARI, "Le invasioni barbariche in
Italia", Hoepli, Milano, 1905, p. 243).
(V) Oltre al toponimo San Mommè nell'Alta Valle dell'Ombrone Pistoiese
ritroviamo alcune forme Mummè nell'Alto Appennino Pistoiese (cfr.
A. FANOI ANDREOTTI, "Acqua corrente", Armonia - Pro Loco Piteglio,
Pistoia, 2004, p. 53).
(VI) La presenza delle missioni in terra longobarda è così
motivata da Natale Rauty:
"La lunga guerra gotica e la successiva conquista longobarda avevano
sconvolto l'assetto della penisola italiana, interrompendo anche l'azione
di evangelizzazione delle campagne, ancora in buona parte pagane. Per
di più i nuovi popoli invasori, convertiti al Cristianesimo, avevano
aderito all'eresia ariana, affermata in buona parte dell'Europa centro
orientale. Con l'ascesa al soglio pontificio di Gregorio Magno (590 -
604) ebbe inizio un'attività missionaria che, oltre a terre lontane
come l'Anglia, interessò anche vaste regioni italiane e raggiunse
già nella prima metà del secolo VII un notevole sviluppo.
Favorirono quest'opera missionaria due circostanze particolari: da una
parte l'attenuata ostilità dei re longobardi verso la Chiesa Romana,
dall'altra le straordinarie vicende che avevano insanguinato il Medio
Oriente.
A partire dal 611 l'invasione persiana aveva interessato gran parte delle
regioni del Meditterraneo orientale, fin a quando l'Impertatore d'Oriente
Eraclio, aveva sconfitto il re Conroe II nel 627. Pochi anni dopo le stesse
terre furono occupate dagli Arabi, infiammati dalla predicazioni di Maometto:
già nel 634 era stata occupata Gaza e, negli anni successivi, la
Palestina e l'Egitto. I sacerdoti ed i monaci, fuggiti dalle zone occupate
e riparati a Roma, furono inviati dai pontefici come missionari nelle
regioni centro - settentrionali della penisola, soprattutto nelle zone
di confine, dove erano accantonate truppe di origine gota o longobarda,
di religione ariana" (AA.VV., "Torri: Storia, Tradizioni, Cultura",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 52).
La Chiesa di Sant'Atanasio ad Orsigna rappresenta, in questo senso, una
delle dedicazioni santoriali più significative: "Sant'Atanasio
(295 - 373) è il celebre Patriarca di Alessandria, l'invitto campione
dell'ortodossia cattolica contro l'arianesimo" (nota a p. 345 del
vol. 4 di "La Somma Teologica" di San Tommaso d'Aquino, Edizioni
Studio DOmenicano, Bologna, 1994).
Per chi non fosse informato ricordiamo che la lingua della
cultura e della religione nelle regioni del Meditterraneo Orientale era
il greco.
(VII) Tra i tanti toponimi del tipo San Martino non andrà dimenticato
San Martino a Spannarecchio derivato da una antica chiesa di quasi sicura
fondazione longobarda di cui sopravvivono oggi solo pochi resti del campanile
di edificazione romanica: "Tanto i ruderi che il toponimo dell'antica
pieve sono quasi totalmente ignoti agli stessi attuali abitanti della
vallata" (N. RAUTY, "Pistoia. Città e territorio nel
medioevo", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003,
p. 82). "E' questo l'avanzo di una torre campanaria, ridotta in tempi
lontani a metato e poi a pollaio, che conserva ancora per circa sette
metri d'altezza una massiccia muratura di pietrame, con paramento a bozze
regolari sia all'esterno che all'interno. Il forte spessore dei muri di
perimetro (metri 1,18) fa ritenere che il campanile dovesse avere originariamente
un'altezza notevole" (Ibid., p. 82).
(VIII) "Il compianto amico Leonello Bertacci aveva
avanzato, con tutta la necessaria prudenza, l'ipotesi di un fondazione
longobarda. Il nome di Granaglione - questo egli pensò con felice
intuito - potrebbe derivare dalla radice germanica da cui provengono warnen,
che significa "osservare", "fare attenzione"; che
è poi la stessa radice che ha generato i vocaboli italiani 'guarinire'
(vedi tuttavia il longobardo warnjan > preparare) e 'guarnigione',
nonché 'guardare' e 'guardia'. Il nome Granaglione, che nelle carte
medioevali più antiche ha sempre la forma Garnaione, potrebbe quindi
avere un significato simile a quello di Vernio, cioè luogo munito
e luogo di osservazione; significato che data la situazione geografica,
si addice alla nostra località ben più che il riferimento
diventuo tradizionale al 'grano' e alle 'granaglie, che nella zona sono
quasi inesistenti" (A. Benati, "la storia antica di Granaglione",
in AA.VV., "Il mondo di Granaglione", Tamari Editori, Bologna,
1977, p. 22). Alla pagina 42 di questo stesso libro è riportato
l'antico stemma della Comunità di Granaglione, significativamente
composto da una torre (le torri sono postazioni di avvistamento) sulla
sommità della quale sono poste delle spighe di grano.
(IX) Il passo di Paolo Diacono è in Storia dei Longobardi
(I, 15) dove attribuisce a 'lama' il significato di stagno (lat. piscina),
per C. Meyer la lingua Sassone aveva un vocabolo klamon di identico significato.Tuttavia
è da segnalare che il vocabolo "lama" col significato
di pantano è presente già nel poeta latino Orazio. Tutte
le ipotesi a questo punto sono possibili: a) il vocabolo lama è
una antica voce germanica assunta dai latini in età classica come
uro, alce, sapone, etc.; b) il vocabolo 'lama' è una voce latina
assunta dai Longobardi e da altri popoli germanici; c) la voce 'lama'
è un relitto protoindeuropeo comune sia al ceppo germanico che
a quello romanzo (ma per il Devoto il termine 'lama' è una voce
mediterranea anaria) Attribuire quindi tutti i toponimi del tipo 'Lama'
ad una origine germanica pare così esagerato, ma altrettanto esagerato
ci pare la posizione di alcuni studiosi che negano sempre e comunque l'origine
longobarda a tutti i toponimi del tipo 'Lama'. Ad ogni buon fine ricordiamo
le parole della Nicoletta Francovich Onesti ("Vestigia Longobarde
in Italia", op. cit. pp. 98 - 99): "LAMA 'stagno', 'peschiera'.
Si tratta del latino 'lama' palude che risulta però quasi omofono
con gli esiti longobardi del tema germanico 'laima' - limo (ags lam).
Paolo se ne serve per illustrare il nome Lamissio... cfr. oltre a Lamissio
anche i nomi propri Lamipert e Lamiteo"
(X) L'importanza attribuita dai Longobardi all'allevamento
dei maiali trova preciso riscontro anche nelle Leggi di Rotari: infatti
nel capitolo 'De greges aequorum seu porcorum' per i ladri di maiali sono
stabilite le stesse, severissime, pene previste per i ladri di cavalli.
(XI) I toponimi basati su cognomi, nomi, soprannomi con
etimo longobardo o germanico sono nella nostra zona di interesse particolarmente
diffusi. A titolo di esempio ne ricordiamo sommariamente tre: Cason di
Becca (nei pressi di Boschi di Granaglione), Casa Gherardini (nei pressi
di Spedaletto) e Casetta del Fiasco (nei pressi di Frassignoni), Lamberti
(sottofrazione di Santomoro).
(XII) Per Guccini "aschero" può derivare sia dal greco
"eschairon", col significato di bracere / piaga purulenta che
dal longobardo "eiskon" col significato di domanda. Nella nostra
ricerca, alla luce dei tanti longobardismi e germanismi riscontrati nel
territorio, abbiamo preferito adottare l'eiskon longobardo al greco eschairon.
Tuttavia gli assai complessi attributi semantici della parola "aschero",
e la sua presenza nel pistoiese e nell'Alto Reno, possono anche ricondursi
ad un uso religioso della parola greca "eschairon" (ad indicare
realtà come il bruciore per l'inferno o il bruciante desiderio
del paradiso) riconducibile, in tal modo, non ad una effimera dominazione
bizantina, ma alla presenza di missionari orientali in terra longobarda.
(XIII) La forma petrolinga (con variante peterlinga) è diffusa
in alcune parti dell'Alto Appennino Pistoiese.
(XIV) La tradizione risultava presente ancora a Lucciano e a Piteccio.
In queste località si accompagnava anche la benedizione del "pane
delle galline". Pur non dimenticando che tali tradizioni possono
spiegarsi anche senza dovere ricorrere necessariamente a miti nordici
(per Piteccio la tradizione viene giustificata localmente con l'importanza
che questi animali hanno nella vita contadina (ad esempio "il gatto
aveva il suo compito ben preciso: difendere il cibo dai topi" (P.
NESTI, "...Villa c'era", Pro Loco Piteccio, Pistoia, 2004, p.
123)), vale comunque la pena segnalare che anche il gallo riveste una
importanza decisiva nella mitologia germanica: Il Crepuscolo degli dei
(Ragnarök) verrà annunciato dal canto di un gallo rosso, di
un gallo d'oro e di un gallo ruggine. Va altresì segnalato come
tra i Longobardi fosse diffuso l'uso di porre sulle tombe degli inumati
le spoglie di un gallo o di una gallina, tradizione che sopravvive tutt'oggi
nella nostra area di interesse a livello di fiaba (vedi il sambucano racconto
della Regina Selvaggia sepolta con una chioccia e dei pulcini d'oro).
In merito ad altre superstizioni legate al gallo e alla gallina cfr. M.
CECCHELLI, "Una gallina sotto il guanciale", Gente di Gaggio,
2001, pp. 178 ss.
(XV) Una variante di questa tradizione di possibile origine germanica
(tuttavia più legata ai culti arborei) si può rintracciare
in Umbria: "In rapporto alla farsesca rappresentazione della Mascherata
di San Leo Bastìa è da collegarsi un rituale tra i più
antichi e diffusi nell'ambito rurale regionale. Si tratta della festa
di "Sega la Vecchia", collocata a metà Quaresima e consistente
nella raapresentazione drammatica e grottesca dell'uccisione di una vecchia
che allo stesso tempo è anche una quercia: gruppi di giovani contadini,
tutti di sesso maschile, si preparano e si mascherano, e nelle notti di
Mezza Quaresima vanno per la campagna fermandosi di casolare in casolare
a eseguire la rappresentazione finita la quale ricevono uova e vino. A
seconda delle località si riscontrano leggere variazioni nella
struttura del canovaccio e nelle esecuzioni, ma la trama è identica:
due segantini (taglialegna) contrattano con il padrone del bosco il prezzo
della vecchia - quercia e, accordatisi, l'abbattono e cominciano a sfrondarla;
sopraggiunge il marito della vecchia che riconosce nell'albero abbattuto
la propria moglie e quindi si susseguono interventi burleschi del medico,
del maresciallo dei carabinieri, del prete, eccetera. Alla fine la vecchia,
data oramai per morta da tutti, si rialza e inizia a ballare freneticamente
con il marito al suono di una fisarmonica. Questa festa, in declino, sopravvive
nelle campagne di Paciano e di Umbertide" (AA.VV. "Umbria",
Touring Club Italiano - Repubblica, Milano - Roma, 2004 p. 82). Sicuramente
più complicata da ricostruire è l'origine di certe superstizioni
che possono essere attribuite in egual misura al mondo greco - latino
oppure al mondo germanico - nordico. E' il caso, ad esempio, della "magia
del filo":
"La vigiglia di Natale uno innocente filare a digiuno e con quel
filo legare i frutti danno più frutto che non farebbero" (testimonianza
di Aurelia Riccioni pubblicata in M. CECCHELLI, "Una castagna sotto
il guanciale", Gente di Gaggio, Gaggio Montano, 2001, p. 36).
In questo caso la simbologia dove può essere ricercata? Nel mito
meditterraneo delle tre Parche che filano il filo della vita o nel mito
nordico delle tre Norne che filano il destino di ciascun essere umano?
E il germanico "rok" (destino / fato) è in qualche modo
legato al termine "rocchetto" (= piccolo sostegno di forma cilindrica
su cui si avvolge il filo)?
(XVI) La figura del nano risulta ben distinta da quella del folletto.
Quest'ultima, infatti, è di chiara derivazione latina e discende
direttamente dagli "incubones" romani, sorta di spiritelli dotati
di cappuccio. Anche nella nostra area di interesse sono presenti i folletti
come dimostrano certe credenze altorenane (ricordiamo la "stanza
del folletto" in un 'dittaggio' lizzanese) e le fiabe pistoiesi "Mille
chicchi di panico" e "la trave dell'impiccato". Quest'ultima
interssante favola pistoiese, che sembra in qualche modo legare questa
figura mitologica latina al "grillo parlante" di Pinocchio (C.
LAPUCCI, "Il libro delle veglie", Vallardi, Milano, 1988, p.
283), presenta peraltro una singolare commistione tra l'incubones stesso,
i "penati" romani (spiriti tutelari delle case spesso confusi
con i "lari domestici") e i "gutviarghini" della favolistica
germanica (vedi la classica fiaba dei "Folletti e il calzolaio"
dei fratelli Grimm). Per quanto attiene il termine "gnomo",
che nella fiaba lizzanese citata è usato come sinonimo di nano,
sarà bene ricordare come lo stesso abbia un padre rinascimentale:
il medico ed alchimista Paracelso che, nel XVI secolo, inventò
la parola "gnomus" partendo da un greco "???µ??".
Per quanto riguarda Pinocchio, già citato in precedenza in questo
lavoro, sarà bene ricordare che la sua attribuzione all'area pistoiese
è tutt'altro che fuori luogo considerando che il paese di nascita
della madre di Carlo Lorenzini è Collodi (da cui il soprannome
dell'autore), in provincia di Pistoia.
(XVII) All'epoca longobarda risalgono, ad esempio, i pregevoli capitelli
custoditi nella cripta della Cattedrale decorati con simboli cristiani
(Per uno di questi abbiamo predisposto un approfondimento, per sapere
di più clicca qui), alcuni resti di pluteo, vari frammenti lapidei
anch'essi provenienti dagli scavi nella cripta della Cattedrale. E nientemento
che al Re Agilulfo pare appartenesse la lamina a sbalzo dorata ritrovata
in Valdinievole attorno al 1890 con imitazione di un rilievo celebrativo
classico e la scritta "VICTURIA DOMNO AGILULF REGI" (attualmente
al Museo del Bargello di Firenze). L'arte dei secoli successivi manterrà
in area pistoiese un forte carattere barbarico, dimostrabile anche in
piccoli artifici scultorei come il piccolo leoncino in pietra serena proveniente
dalla Chiesa di Santa Maria Forisportam ed ora nella parete esterna che
si affaccia su Via del Vento della Basilica della Madonna dell'Umiltà.
(XVIII) Fu necessario infatti superare una reciproca diffidenza ben testimoniate
da questi reciproci sprezzanti giudizi: "Per noi altri Longobardi,
Sassoni, Franchi, Lotaringi, Baioari, Svevi, Burgondioni, il nome stesso
di Romano è un’ingiuria" (Re Liutprando); "La perfida
e puzzolentissima nazione de’ Longobardi, che non si conta neppure
tra le nazioni, e dalla quale è certo essere venuta la razza de’
lebbrosi" (Papa Stefano III) Per Papa Stefano III il re longobardo
Astolfo era: "malignus, iniquus, pestiferus, nequissimus, nefandus,
atrocissimus, nefandissimus, tyrannus". E tuttavia questi pur sprezzanti
giudizi non devono far dimenticare che i Longobardi assunsero il titolo
romano di "Flavi", che diversi "Romani" scelsero di
essere sepelliti alla maniera longobarda, che lo stesso papa Gregorio
Magno (in una lettera del 598 rivolta a Teodolinda) ricorderà il
Re Agilulfo come 'excellentissimum', etc. E, in precedenza, anche tra
i Goti l'ammirazione per la cultura romana era profondissima: "I
Goti... tenevano più loro alla 'romanità' e alla tradizione
latina che i Romani stessi" (S: ROVAGNATI, "I Goti", Xenia,
Milano, 2002, p. 1)
(XIX) Anche il Gasparri risulta dello stesso parere: "le
basi per la fusione dei due popoli c'erano tutte" (S. GASPARRI, "Prima
delle nazioni, Popoli, etnie e regni fra Antichità e Medioevo,
Nuova italia Scientifica, Roma, 1997, p. 149). Simili a questi pareri
sono anche le considerazioni del Sestan riportate da Natale Rauty nella
sua opera sul "Regno longobardo e Pistoia" (Società Pistoiese
di Storia patria, Pistoia, 2005, p. 178): "Forse coglie meglio la
realtà storica una concezione mediatrice, che può anche
ammettere la discendenza frequente, ma non generale, di quei gruppi di
'lambardi' da stirpi longobarde, ma ormai nei secoli successivi etnicamente
fusi con l'elemento romanico, dimentichi di quella loro discendenza, ma
ben coscienti della loro posizione sociale". Che tuttavia questi
'lambardi' fossero così dimentichi della loro discendenza longobarda
pare sconfessato da vari esempi come la progenia stagnense: "Un caso
ancora più interessante è quello dei lambardi Stagnenses,
ricordati in una cartula permutationis del 1175. Nella località
di Stagno, nella valle della Limentra orientale, che è stata ritenuta
la punta avanzata dello schieramento longobardo nel versante nord dell'Appennino,
di fronte al limes bizantino, si trova la più tarda documentazione
di una gens longobarda. Sul finire del secolo X, il signore di Stagno
era Sigifredi del fu Alboino, i cui discendenti di nome Sigifrido e Agiki,
definiti anche ex progenie Stanise o Stangnenses erano nobili e si professavano
di legge longobarda. Sembra quindi, in questo caso, sia per la costante
onomastica tipica della gens longobardorum, sia per l'antichità
della documentazione che risale al X secolo, sia infine per la professione
di legge, che i Lambardi Stangenses citati nel 1175 fossero effettivamente
i discendenti o gli eredi delal progenie Stansie, antico gruppo parentale
longobardo, stanziato cinque secoli prima nella valle del Limentra"
(Ibid. p. 180). Altri esempi di consorterie di Lambardi nella Iudicaria
Pistoriensis sono: a) nella pianura dell'Ombrone Pistoiese - Bisenzio
con Campo Magio, Vignole, Agliana, Iolo); b) nelle zone collinari del
Montalbano con Castellina dei Lombardi, Casalguidi, Tizzana e Carmignano,
c) nelle valli delle Limentra con sambuca, Torri; d) in Valdinievole con
Buggiano, Montecatini e Bibiano; e) nell'Alto appennino Bolognese con
Ripoli, Monte Vigese, Vimignano. Tornando al problema della fusione delle
due stirpi (romana e longobarda) merita, infine, uma lunga citazione da
Rauty: "Già dalla legislazione del secolo VII appare quindi
manifesto un ricambio sociale: individui romanici d'elevate condizioni
economiche, che acquistano privilegi in origine riservati agli exercitales;
chierici longobardi, e spesso anche i loro familiari, che seguono la legge
romana; la possibilità di celebrare matrimoni misti senza impedimenti...
Per i matrimoni misti è rimasta a Pistoia la memoria di una 'charta'
del 779 del longobardo Avufuns, la cui moglie aveva il nome tipicamente
romano di Lucida" (N. RAUTY, "Il Regno longobardo a Pistoia",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2005, p. 286).
(XX) "I Bizantini, che non avevano forze disponibili
per contrastare in campo aperto l'esercito nemico, si ritirarono sull'Alto
Appennino lungo una linea assai arretrata, difesa da una serie di fortificazioni
fisse. Si realizzò così un nuovo limes a difesa della base
strategica di Bologna, che dal Mugello raggiungeva il Frignano, attraverso
le valli del Sambro, della Setta e la media Valle del Reno.
Per fronteggiare questa linea fortificata, i Longobardi fecero avanzare
i loro gruppi armati di exercitales (o arimanni) in una fascia di territorio
montano che sul versante tirrenico interessava l'alta valle del Bisenzio
e sul versante adriatico le tre vallate della Limentra. Si costituì
così una linea avanzata longobarda, alla distanza di una ventina
di chilometri dai castelli del limes bizantino. La base logistica di questo
schieramento longobardo era la città di Pistoia, nella quale era
installato un gastaldo, così che anche i territori poste oltre
il crinale furono compresi di fatto nella iudicaria pistoiese, sebbene
mai, in precedenza, fossero stati soggetti a Pistoia...
I gruppi arimannici stanziati nelle valli della Limentra svolsero il ruolo
di scolte armate per oltre un secolo, fino a quando, sotto il regno di
Liutprando, il fronte bizantino fu travolto ed attorno al 727 fu conquistata
Bologna. Nell'alto Appennino i Bizantini dovettero allora abbandonare
i castelli del limes per ripiegare su una linea più arretrata,
mentre i Longobardi poternono avanzare ulteriormente, occupando quella
sorta di terra di nessuno che per oltre un secolo aveva diviso i due schieramenti
contrapposti. Anche in questi nuovi territori, compresi grosso modo fra
il Sambro e la Limentra, furono stanziati nuovi gruppi arimannici, mentre
la iudicaria pistoiese si estese di fatto all'intera zona compresa tra
questi due corsi d'acqua.
... In particolare, l'espansione in queste zone transappenniniche del
territorio soggetto al gastaldo di Pistoia è confermata da numerosi
documenti notarili dei secoli XI e XII, nei quali molte località
tra il Sambro e la Limentra sono definite ancora "in iudicaria Pistoriensi".,
o più precisamente "in territorio Bononiense, iudicaria Pistoriensi".
La punta più avanzata verso nord - est arriva addirittura al villaggio
di Brigola, oggi in prossimità del casello autostradale di Rioveggio"
(N. RAUTY, "Sambuca dalle origini all'età comunale",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1990, pp. 4 - 6).
E ancora:
"Elemento di grande importanza per la storia del territorio fu, fra
il VI ed il VII secolo, l'invasione dei Longobardi provenienti, per la
montagna bolognese, probabilmente da sud dalle città di Lucca,
Pistoia e Fiesole che furono da essi occupate già alla fine del
VI secolo. La presenza di questo popolo di origine germanica modificò
profondamente l'assetto territoriale, perché le alte valli bolognesi
divennero zona di frontiera fra la Longobardia pistoiese e la Romania
bolognese - ravennate, arretrata più a nord della linea Castelnuovo
- Montovolo - Castel dell'Alpi... L'influenza pistoiese e la dominazione
dei signori di Stagno nella cosiddetta terra Stagnese continuò
fino all'inzio del duecento quando il Comune di Bologna condusse a termine
il progetto di nuova occupazione delle alti valli, al fine di corrispondere
il proprio distretto al territorio soggetto al vescovo cittadino"
(R. Zagnoni, "note storiche sul comune di Granaglione" in AA.VV.
"Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione", Gruppo
Studi Alta Val del Reno, Porretta Terme, 2001, pp. 24 - 25).
Ancora più risoluto il giudizio di Paolo Bacchi:
"Verso la fine del VI secolo gli invasori [Longobardi] raggiunsero
il crinale, percorrendo le vie più accessibili per quel tempo:
gli odierni valichi della Collina e di Montepiano [la Collina è
in provincia di Pistoia mentre Montepiano è in provincia di Prato
ma dipese ecclesiasticamente da Pistoia fino al 1975]... E' presumibile...
che all'inizio del VII secolo il cuneo longobardo si insinuasse stabilmente
ben oltre i capisaldi individuati da Rauty, arrivando a toccare il corso
medio del Setta e della Valle del Sambro. Il toponimo Fara di Setta, situato
a valle di Creda (Castiglion dei Pepoli) e riportato ancora nel 1408 potrebbe
essere un indizio fondamentale per individuare i limiti cronologici e
spaziali dell'avanzata dei Longobardi verso Bologna... Il toponimo è
verosimilmente la spia di un nucleo arcaico di occupazione del territorio,
legato alla prima fase dello stanziamento longobardo in Italia" (Savena
Setta Sambro, n. 19 (anno 2000), p. 16)
Ovviamente quanto parliamo di 'identità germanica' che resiste
nell'Alta Valle del Reno attraverso il toscano non sosteniamo che il toscano
sia una lingua germanica, ma ci riferiamo alla volontà della popolazione
longobarda (germanica) di accogliere la romanità toscana, in contrapposizione
a quella gallica; in proposito basterà ricordare, a titolo di esempio,
che:
1) Il primo podestà di Pistoia fu il longobardo Gerardo di Stagno;
2) Ciottolo di Bargi, Ghislmerio di Casio e tutta la progenie stagnese
furono fedelissimi vassalli della causa pistoiese, avversò Bologna
tanto che, nel 1205, gli uomini di Stagno giurarono di difendere Pistoia
'in tota sua fortia et districtu'. Al giuramento del 1205 gli Stagnesi
rimasero, peraltro, fieramante fedeli, come dimostra anche il brano seguente:
"Qui vorremmo solo fare rilevare come Ugolino di Stagno all'inizio
del Duecento, pur nelle traversie di un momento difficile, parteggiò
sempre per la Città di Pistoia; anche nelle vicende dell'inzio
del Trecento gli Stagnesi ribadirono sempre la loro fede ghibellina e
la loro avversione, condivisa con i Panico, al dominio del Comune di Bologna.
In questa irrevocabile scelta essi ribadirono quei principi e quella mentalità
che stavano alla base della loro origine e della storia storia della famiglia,
che dalla dominazione longobarda pistoiese deriva le proprie tradizioni
guerresche ed il proprio dominio sulle montagne fra Bologna e Pistoia"
(Nueter, XXIII, 1997, p. 192).
Mentre per i territori di Castel di Casio, Camugnano, Porretta Terme,
Granaglione la situazione appare lampante, un poco più complessa
è la ricostruzione delle vicende storiche di Lizzano in Belvedere
e Gaggio Montano. Secondo alcuni autorevoli storici locali (ad esempio
il Zagnoni) Lizzano in Belvedere e Gaggio Montano furono occupate dai
longobardi modenesi e non dai longobardi toscani (cfr. R. ZAGNONI, "Il
medioevo nella montagna tosco - bolognese", Nueter, Porretta Terme,
2004, pp. 237 - 238). Queste dichiarazioni paiono tutte ricondursi a un
celebre passo della Historia Longobardorum di Paolo Diacono: "Il
Re Rotari ... mosse guerra ai Romani di Ravenna [i bizantini], presso
il fiume dell'Emilia detto Scultenna" (IV,45). Tuttavia all'epoca
di Paolo Diacono il termine Scultenna si riferiva all'intero corso del
Panaro. A nostro avviso la presenza di dialetti toscaneggianti a Lizzano
in Belvedere rappresenta la prova più evidente che Lizzano e Gaggio
Montano (che pure mantiene qualche modesta traccia toscaneggiante nel
parlare) fu conquistata dai Longobardi di Toscana. A supporto della nostra
interpretazione, peraltro, possiamo menzionare:
1) [accettando l'interpretazione dello storico Rauty e di altri storici
Zagnoni compreso] la presenza del toponimo Scaffaiolo nell'area del Corno
alle Scale che può essere spiegato esclusivamente ricorrendo ai
Longobardi di Toscana dato l'uso del suffisso -olo (cfr. la notazione
redatta per "Scaffilum" da Nicoletta Francovich Onesti a pagina
49 del libro "Vestigia longobarde in Italia" (Artemide Edizione,
Roma, 2000));
2) La presenza di un'altra importante località del crinale appenninico
nel quale si parla un dialetto toscaneggiante e che appartenne ai territori
del Marchesato di Toscana fino all'XI secolo Fiumalbo. Del tutto destituita
di fondamento è poi la tradizione storica riportata in più
occasioni nella rivista lizzanese "La Musola" secondo la quale
Lizzano rimase in mano ai bizantini fino al 749 - 751 d.C. dato che le
vicine Pistoia e Modena erano longobarde fin dalla fine del VI secolo,
mentre Bologna fu conquistata dai Longobardi nel 727 d.C. (cfr. G. RAVEGNANI,
"I Bizantini in Italia", il Mulino, Bologna, 2004, p. 128).
Anche Amedeo Benati (Il Carrobbio, anno II, n. 2, 1976, pp. 48-49) è
del parere che Gaggio Montano e Lizzano in Belvedere appartennero ai Longobardi
di Toscana (poche pagine prima il Benati scrive: "fra la Tuscia longobarda,
e in particolare Pistoia, e il territorio montano bolognese i rapporti
furono intensi e molteplici").
Tutti questi elementi di valutazione ci paiono, peraltro, sufficienti
per attribuire, almeno per la nostra area di interesse, un pieno carattere
di fondatezza alle affermazioni del Balbo e del von Pflung-Harthung secondo
le quali la vitalità dell'elemento germanico si è fatta
sentire nel suolo italiano "fino ai tempi nostri" (P. GRIBAUDI,
"Sull'influenza germanica nella toponomastica italiana", Società
Geografica Italiana, Roma, 1902, p. 10) ravvivando "lo stanco sangue
latino" (Ibid.). Una voce contraria è rappresentata dal Salvioli
che nega ai Germani una parte efficace nella costituzione della nuova
nazione italiana data l'esiguità dei barbari che giunsero in Italia.
A questa obiezione del Salvioli il Gribaudi ebbe modo di controbattere
che la medesima avrebbe avuto un senso solo "se la popolazione italiana
nel Medio Evo fosse stata molto densa; ma il Salvioli stesso s'industriò
di dimostrare ch'essa era ridotta ai minimi termini" (Ibid. p. 11).
Testimonianze di Papa Gelasio e Procopio di Cesarea sembrano confermare
che la popolazione italiana fu davvero ridotta ai minimi termini: "Tuscia
et Aemilia ceteraeque provinciae in quibus hominum propa nullus existit"
(Sacrosanta concilia, V, Gelasius papa I adversus Andromachum senatorem,
col. 361); "Per il Piceno si dice che non meno di cinquantamila contadini
romani morissero di fame" (Procopio di Cesarea, "Guerra Gotica",
II, 20). Secondo Procopio di Cesarea, per la sola Italia centrale, il
numero di morti causati dalla guerra gotica fu nell'ordine di milioni
(cfr. N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I, Firenze, 1988,
p. 34). Attualmente si ritiene, tuttavia, che i Longobardi che giunsero
in Italia nel VI secolo furono poco più di trecentomila mentre
la popolazione italiana (pur falcidiata dalla guerra gotica) si aggirava
sui 7-8 milioni di persone (N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol.
I, Le Monnier, Firenze, 1988, p. 146) anche se alcuni autori (es. Enrico
Sestan in 'I Longobardi' in 'Storia della società italiana', vol.
V, 'L'talia dell'alto medioevo', Teti editore, Milano, 1984, p. 74) propendono
per quantificare in appena 4 milioni di persone il numero degli abitanti
della penisola italiana a seguito della guerra gotica. Questi numeri fanno
ben comprendere come i longobardi non furono in numero sufficiente per
potere "germanizzare" l'intera penisola italiana, ma sufficienti
per "ravvivare il sangue latino" in alcune aree geografiche
anche di importanti dimensioni come la nostra. A tal proposito varrà
la pena riportare anche ungiudizio di Paolo Bacchi riferito ai territori
dell'Alto Appennino Bolognese che furono sottoposti all'antica giurisdizione
civile dei Longobardi di Pistoia: "I Germani mantennero la loro cultura
a lungo, ben oltre i confini temporali tradizionalmente accettati... Questo
singolare fenomeno di attardamento culturale fu la conseguenza di almeno
due fattori: il numero degli invasori, abbastanza alto da contrastare
sul piano ideologico la popolazione autoctona ed il carattere alpestre
del territorio, che permise loro di conservare per lungo tempo il loro
modello di vita in una sorta di isolamento cantonale" (Savena Setta
Sambro, n. 14 (1998), p. 11). In ogni caso non è da escludere che
il rapporto tra popolazione italica e popolazione germanica nella penisola
si modificò in favore della componente germanica anche a seguito
delle nuove atrocità compiute dagli invasori longobardi: "Mox
effera Lamgobardorum gens, de vagina suae abitationis educta, in nostra
cervice crassata est, atque hominum genus, quod in hac terra prae moltitudine
nimia quasi spissae segitis more surrexerat, succisum aruit. Nam depopulatae
urbes, eversa castra, concrematae aecclesiae, distructa sunt monastiria
virorum adque feminarum, desolata, ab hominibus praedia, adque ab omni
cultore destituta in solitudine vacat terra. Nullus hanc possessor inhabitat;
occupaverunt bestiae loca quae prius multitudo hominum tenebat et quid
in aliis mundi partibus agatur ignoro; nam hac in terra, in qua nos vivimus,
finem suum mundus non iam adnuntiat, sed ostendit" (Papa Gregorio
Magno).
"I goti divennero cavalieri seminomadi dai tratti marcatamente orientali,
tanto è vero che gli osservatori greci e romani del tempo erano
portati a confonderli con stirpi iraniche, come gli sciti o gli avari.
E' notevole come una stirpe che è stata percepita e presentata
dalla cultura moderna, soprattutto ottocentesca e primonovecentesca, come
'tipicamente germanica' (e anzi come una sorta di popolo 'campione' di
presunti valori 'germanici') fosse invece ricondotta dagli antichi nel
novero delle etnie orientali; ciò ben sottolinea al contempo la
fortissima contaminazione culturale - ora riconosciuta dalla storiografia
- delle stirpi tardoantiche e altomedioevali e, di conseguenza, l'improponibilità
delle rigide classificazioni, del tutto convenzionali, cui si è
stati per lungo tempo abituati (e delle quali si fatica ad emanciparsi)"
(C. AZZARRA, "L'Italia dei barbari", Il Mulino, Bologna,2003,
p. 48). "A proposito di tale mausoleo [il mausoleo di Teodorico],
è stato fatto recentemente osservare come in esso vi siano elementi
architettonici che fanno pensare alle tende dei popoli mongoli, le yurte.
Poiché tali elementi sono limitati alla parte superiore dell'edificio,
si è avanzata la suggestiva ipotesi che Teodorico abbia improvvisamente
deciso di trasformare il monumento, fino allora costruito su disegno tipicamente
romano, in qualcosa che gli ricordasse la lontana infanzia e i racconti
dei suoi antenati" (R. BERTI, "Storia dei Goti", Edizioni
Helvetia, Venezia, 1982, p. 177). "I Goti, come altri Germani dell'Est,
non furono influenzati dalle genti nomadi solamente nell'arte, nell'abbigliamento
e nelle tecniche di combattimento, ma anche dal punto di vista sociale
ed economico" (S. ROVAGNATI, "I Goti", Xenia, Milano, 2002,
p. 93).
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